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IL 20 SETTEMBRE DI KATSUSHIRO (Tifiamo rivolta)

Non sono sicura di essere capace di scrivere una recensione musicale.
D’altra parte non sono nemmeno sicura che questa lo sia. Direi che si prefigura più come un ringraziamento, una di quelle cose che da ascoltatori si sogna sempre di fare quando la musica di qualcuno ha significato tanto. Che è poi precisamente il mio caso.
Perché il disco dei Katsushiro Perso Nel Bosco è arrivato in un momento piuttosto traumatico della mia vita, in contemporanea con un incidente che tra le altre cose mi ha tolto la voglia di musica: per un lungo periodo è stato praticamente l’unica cosa che riuscivo ad ascoltare.
Ricordo ancora la prima volta, un pomeriggio in cui mi sono azzardata ad uscire con il cane: lei che tirava da una parte, io in equilibrio precario dall’altra, l’aria fresca di settembre. Ho infilato le cuffie (se mi conosceste un po’ sapreste che io con le cuffie nelle orecchie praticamente ci vivo), la musica è partita e io ho cominciato a guarire.
Credo che il disco mi sia piaciuto subito perché era costruito sul dialogo tra due elementi contrastanti ma complementari che in quel momento erano anche i miei: forza e debolezza. Mi spiego meglio: la forza era rappresentata dalla musica – densa, matura, avvolgente, piena, ‘adulta’– mentre le voci (due e profondamente diverse tra loro), spesso più grezze e istintive, ne rappresentavano il contraltare debole. E con debole non intendo assolutamente qualcosa di minor valore, sia chiaro, anzi: erano il giusto apporto di imprevedibile ed emotivo. A tenerli insieme, infine, i testi: profondamente impegnati, intensamente interpretati.
Sull’intreccio di questi elementi, che a volte si sostengono, altre si contrastano apertamente, si basano tutte e dieci le canzoni che, se dovessi usare un termine solo, definirei ‘militanti’: una militanza convinta, voluta, nonostante fatica, disillusione, rabbia.
Per amore e per coerenza.
La militanza comincia subito con ‘Tifiamo Rivolta’ e la voce di Massimo Conte (che è anche una delle due chitarre: la seconda è di Cesare Biratoni) che apre liricamente per trasformarsi quasi subito in una vera e propria marcia di musica e voce, unite in un corteo alla fine del quale, dopo un inesorabile crescendo a muso duro, si scatena un vero e proprio tifo. Per la rivolta, appunto. Come se si trattasse di una squadra di calcio; per partito preso, per necessità, perché ‘questi cazzo di anni zero’ nonostante tutto si devono, no, si vogliono salvare.
‘Katsushiro perso nel bosco’ segue quasi senza interruzione, giusto due note sospese di chitarra. La marcia continua, inizia la battaglia: quella musicale tra strumenti e recitato che nel finale finiscono letteralmente per rincorrersi, e quella ben più importante per la ricerca di una definizione di sé stessi nel confronto – esclusivo, inclusivo – con gli altri. Katsushiro ne esce stremato, sì, ma solo apparentemente indifferente.
Segue ‘Lieve’, ed è una pausa – come quando da bambini si chiedeva l’attimo – una delle canzoni più struggenti. Sarà la fisarmonica, sarà la voce solista che cambia (è quella di Leonardo Sala) e si addolcisce: l’effetto è quello di una preghiera. Una preghiera nel nome della leggerezza, perché alleviare non sia sinonimo di oblio bensì di ricordo, memoria, che resti e che dia frutti, foss’anche come traccia radioattiva – a illuminare il mondo.
‘Pratica’, invece, è il primo dei buoni propositi. Infatti avanza ostinata in un crescendo di batteria (a suonarla Giorgio Albani). E’ vero, non abbiamo assaltato il cielo, però possiamo alzarci, attraversare il corridoio, preparare il caffè e continuare a ripeterci che sì, la nostra cosa migliore dovrà per forza essere la prossima.
‘Cf’ torna alla voce di Massimo Conte e racconta un momento di sconforto – anche se passeggero. La corsa infatti riprende quasi subito, nonostante il fiato corto e le poche illusioni. Per ora il ritmo resta lento, quasi seguisse le orbite dei ‘pianeti scagliati dalle mani dei giganti’ – mentre chitarra e batteria preparano la canzone successiva concludendo in un dialogo bellissimo e struggente
Confesso, ‘Il paesaggio di un lunedì qualunque’ la ascolto meno delle altre canzoni– soprattutto, non la ascolto mai di lunedì – ma solo perché è davvero intensa. La prima volta che l’ho fatto ero in treno verso – appunto – Milano: la mia città d’adozione, un pezzo della mia storia, un pezzo del mio cuore. E incredibilmente è tornato indietro tutto: il grigio dei suoi cieli d’autunno, la solitudine eroica delle mie serate da universitaria appollaiata sul balcone o con il naso incollato ai vetri a guardare la pioggia. ‘La santa signora del distanziamento’ – che anche se hai corso più lentamente delle nuvole non è detto che tu abbia perso la gara.
Le due canzoni che seguono le ascolto sempre inevitabilmente insieme, perché credo che siano collegate, anche se in modi che non riesco bene a spiegare.
‘Prometeo su Dresda’ parla dei bombardamenti sulla città ad opera degli anglo-americani del Febbraio del 1945: inutilmente ma tatticamente crudeli, devastanti, mostruosi. E’ un rigurgito di memoria e sdegno, che risveglia ricordi di occhi avidi sulle pagine di Vonnegut e di schifo, schifo, schifo mentre il ritmo incalza (non dimentichiamo Alberto Moscatelli al basso) e prima che tu te ne accorga la canzone è scappata via in un turbinìo di fiati.
‘Chas’ invece è una canzone d’amore. Che parla di quello che non sempre si riesce a tradurre in parole e che si esprime nelle attese, poi negli sguardi, infine negli abbracci. E’ una canzone stupita e che stupisce, che cresce piano e che appena finisce di crescere si zittisce, quasi non volesse disturbare oltre.
Stranamente, ‘Tyssenkrupp’, cantata da Leonardo Sala e dedicata al terribile rogo del dicembre 2007, l’ho sempre percepita come un omaggio, più che come una canzone di denuncia contro le ragioni del profitto, del lavoro privo di tutele, della solitudine dei singoli di fronte alle ragioni economiche. Un omaggio alle vittime, all’umanità in fiamme, all’intensità irripetibile di ogni singola esistenza che per un nulla, per un interesse privato e banale, finisce per bruciare in pochi istanti.
Ecco siamo arrivati alla fine, a ‘Considerazioni sulla crisi contemporanea’, che vede la partecipazione di Giuliano Dottori, produttore del disco.
E’ il secondo e ultimo dei buoni propositi, quello definitivo: la promessa a sé stessi. Che inizia tremando insieme alla voce del pianoforte e continua nel triste bilancio di una maturità non voluta né cercata, ma non certo definitiva.
Perché se ancora si vuole dare spazio al farsi dell’esperienza bisognerà educarsi ad un lento esercizio: di rigore, intransigenza, creazione, miseria. E’ appurato ormai, separare il dolce dall’amaro è impossibile – non esiste purezza, se non quella delle buone intenzioni. Una regola sola rimane: quella di tenere sempre le ginocchia piegate e il baricentro basso, per non perdere il contatto con il terreno.
Ed ‘evitare di cadere a faccia in giù’.

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