CI VOGLIONO LE ALI PER SALVAGUARDARE LE IMPRONTE

Nessuno sembra mai prendere in considerazione la distanza, e nemmeno quanta strada si debba fare per coprirla ed incontrarsi, persino quando ci si illude di essere molto vicino.
Credo sia soprattutto una questione di onestà, prima ancora che di gentilezza: l’onestà di seguire le regole del gioco, la gentilezza dell’attenzione per l’altro e per il momento dell’incontro che spesso non si riesce ad avere – perché ci vuole controllo. Ci vuole, appunto, consapevolezza della distanza, quando si entra nella vita di una persona – nella sua testa o tra le sue gambe, non c’è differenza.
E poi, dopo, bisogna saper scrivere le proprie parentesi intorno ai ricordi – spegnere le luci al di fuori, accenderle dove serve e aspettare, anche solo di non aver più voglia di dimenticare.
Finché lo spazio arriva. Si crea lentamente, al di fuori dei significati che è inutile cercare e delle giustificazioni che nel silenzio si dissolvono – giustificazioni e significati che non serve che ci siano – non serve mai.
Perché quello che conta è che l’impronta di quello che è stato funzioni. Che si possa utilizzare, che si possa ritrovare il passato come in una biblioteca si ritrovano i libri e come nei libri si ritrovano le pagine sottolineate: attraverso un codice che è tuo e che hai lavorato per creare – più di una parola magica, più di un incantesimo: il dettaglio, la linea dell’impronta del tuo dito, tua, tua e basta.
Nient’altro è giusto, perché nient’altro serve. E’ un dovere, ma soprattutto sarebbe un peccato non farlo – sarebbe un peccato proibirsi di ricordare.
La paura mangia l’anima, la rabbia la corrode. I dettagli la salvano e te la riportano alla memoria, tutta insieme e di più, quando più ti serve.
Si comincia nonostante, quando si capisce che è necessario cominciare, ma la direzione da prendere è un’altra, e per intraprenderla ci vogliono le ali. Che non sono quella vaga, romantica idea per la quale bisogna abbandonarsi all’immaginazione, affidarsi al cuore, liberarsi nei sentimenti. Bullshit. Sono ali vere, fatte della tua carne, delle tue ossa, strumenti che prima non avevi e che ti devi costruire: una mutazione, il cambiamento imprescindibile per uscire dal circolo vizioso del correre e saltare, che durano entrambi molto poco: perdi il fiato torni a terra. Quando voli – per volare – devi cambiare nel tuo stesso essere, nei movimenti, nella grammatica che ti definisce. Devi saper usare le impronte, devi saper riconoscere che ti servono, che sono tue, che puoi permetterti che siano tue. Così puoi arrivare al centro del tuo paesaggio e riuscire a godertelo per intero, senza spazi bui nei quali non guardare.

(Da, con, intorno e grazie a Piero Manzoni – 1933-1963)

DI MURI E DI ASTEROIDI – la ragazza che spostava le virgole


Io non parlo come mangio. Mangio molto peggio di come parlo, in effetti. Di parole spesso mi riempio, soprattutto mi sono riempita, convinta com’ero – e come sono stata per tanto tempo – che fossero la chiave, la parola magica, l’incantesimo che tutto disvela, chiarisce, comunica.
Parlare. No, di più. Spiegare, raccontare, sviscerare sensi e significati. Bastava quello e ti avrei raggiunto. Dove il ‘ti’ era l’altro (l’altra), dall’altra parte: la meravigliosa, insondabile creatura che stava oltre la barricata che ero io.
Non so per quanto, non so esattamente a che prezzo (non è vero, lo so benissimo ma non è il caso di parlarne), ho continuato ad affinare la mia arte per quell’unico scopo, quello che sembrava l’unica cosa che desse valore alle mie parole: raggiungere quell’altrove. Un altrove che però più parlavo più sembrava allontanarsi, come se le parole invece che penetrarla, la distanza, si mettessero in mezzo, rendendola non solo più grande, ma anche più densa.
A volte ci penso alle persone che ho più o meno involontariamente travolto o cercato di travolgere. Ci penso e sorrido, perché poi quando il tempo passa – e per fortuna passa e porca miseria, che tristezza, passa – tutto si aggiusta e se non si è aggiustato non fa nulla. Ecco, vorrei che sapessero – che venissero a sapere in qualche modo, chessò, diteglielo voi – che nelle mie parole c’era tutto il mio coraggio. Un coraggio spropositato, folle e direttamente proporzionale alla paura che avevo, non so bene se di non riuscire o di riuscirci, a raggiungerli.
Anzi, le parole erano quello che il coraggio riusciva a tirare fuori da quella paura, quello che si salvava prendendo forma attraverso strati e strati di insicurezze, confusione, oscurità. Erano quello che mi dava forma, trattenendomi dall’esplodere addosso al mondo intero in un’inutile bum senza forma né senza scopo.

Il muro del titolo, ecco siete stati voi. Non necessariamente un bel muro, non un muro costruito a regola d’arte, ovviamente no: ma comunque un muro contro il quale ho potuto sbattere, e sbattendo zittirmi, e stando zitta liberarmi dal peso della maledizione che le parole a volte possono essere.
Grazie a voi ho potuto fermarmi e ripensare bene la mia grammatica.
L’asteroide, beh, ovviamente, sono io.
Che a volte invece del muro ha incontrato un’atmosfera e ha potuto ridimensionarsi, Riducendo progressivamente velocità e consistenza, fino ad essere qualcosa di più di un semplice agglomerato di intermittenze, comunicazioni interrotte e confusione.
Non è stato facile. So che non lo sarà mai davvero. Quello che so è che continuo a tenermelo caro, questo mio coraggio.
Perché ha a che fare con la parte migliore di me: l’onestà della mia grammatica. Dove ogni virgola conta, deve contare, per la virgola che è.

I’LL BE WEARING YOUR TATTOO

Avrei dovuto pensarci prima.

Avrei dovuto pensarci, davvero, quando giocavo a ripercorrere a ritroso la storia del mio primo tatuaggio, divertendomi a ricostruire i passi lenti, le tappe estenuanti di 15 anni di decisioni rimandate, attese inconsapevoli, consigli chiesti e disattesi: non è un caso, non è mai un caso. Anche quando i pensieri sono rivolti altrove (o non sono rivolti a niente), quando si tratta di dare forma alle cicatrici si scelgono sempre le forme che si sentono più proprie. E quando si tratta di me, le forme ‘più proprie’ sono la carta, le parole e l’altrove – che a pensarci bene racchiude e determina le prime due.

La prima carta, la superficie originaria, sono io; poi di carta ci sono le ali che per prime mi hanno cucito insieme il dentro col fuori e che hanno finito per rimanere nascoste alla maggior parte delle persone per la maggior parte del tempo.

Infine ci sono le parole.

Ecco, se dovessi dare una definizione di cosa davvero mi rispecchia e definisce, beh, sono le parole. E con le parole i vocabolari, le descrizioni, le evocazioni, il ritmo e i suoni delle lingue, la mia come quelle altrui.

Nelle parole trovo il mio altrove, che poi altro non è che il codice delle possibilità inespresse, inesprimibili e sognate di quello che vorrei essere e non sono.

Dalle parole sono partita (sembrano secoli fa), quando ho pensato per la prima volta a un tatuaggio: prima quelle di una canzone degli Suede, ‘My Dark Star’ (tremavo letteralmente ogni volta che arrivava il verso ‘with a tattoed tear she’ll die for us all tonight’), poi con ‘Cloud on my tongue’ di Tori Amos (è il verso che da il titolo a questo post).

Fin dall’inizio l’idea che legavo al tatuaggio era quella di un dolore al quale lasciarsi andare, un dolore in forma di cicatrice indelebile, perenne (io, che ho il terrore di tutto quello che pretende di essere definitivo) come perenni sono certe ferite che non vedi ma senti e che a volte vuoi, a volte non vuoi mostrare. Ricordo che i primi problemi che mi sono posta sono stati proprio quelli della visibilità: volevo che il mio primo tatuaggio non fosse sempre visibile, ma ai miei di occhi – non pensavo nemmeno a quelli altrui. Il secondo, al contrario, volevo doverlo vedere sempre: ancora adesso lo chiamo ‘il tatuaggio da battaglia’, perchè è difficile che non si veda, lì dov’è: mi introduce al mondo, ogni volta.

Le parole che ho scelto sono tutte straniere: appartengono a lingue che ho cercato, a volte inseguito, spesso arrancando, e che adesso fanno parte nel bene e nel male della mia vita. La prima è il mio altrove per eccellenza, il giapponese: altrove che per mille, sofferte, splendide ragioni mi ha portato gioia, dolore e paradossi che pensavo fossero definizioni, ma che proprio per questo forse mi definiscono ancora meglio.

L’ultimo arrivato è invece in inglese, la mia lingua madre d’adozione; rappresenta un ponte tra il passato più recente e il mio presente più impegnativo: un riconoscimento e un ammonimento insieme.

Parla di ritmo, di tempo e di consapevolezza.

Ma dai.

MUSIC AND ME ovvero NON HO MAI FATTO PARTE DI UNA GENERAZIONE

Il punto di partenza di questa (come di molte altre) riflessioni che mi riguardano è sempre sostanzialmente lo stesso: per una lunga, lunghissima, troppo lunga parte della mia vita io sono andata al traino. Al traino del gusto, delle indicazioni, dei suggerimenti altrui.

Ho sempre avuto una sorta di sacro terrore del mio personale giudizio, delle mie inclinazioni, delle mie preferenze. Vi risparmio i patetici risvolti di un’adolescenza e di una prima età adulta piuttosto misere: semplicemente, per mille, intricate ma nemmeno particolarmente originali ragioni, non mi fidavo di me stessa.

Ecco, il punto è, se mi si passa il termine: non sono mai stata particolarmente coraggiosa.

Aggiungeteci la mia connaturata tendenza alla lentezza, alla ripetizione e al cader dentro le cose per farle mie fin nei più impalpabili accenti e avrete l’ascoltatrice di musica che sono sempre stata: timida, solitaria, restìa al cambiamento e in gran parte dipendente dagli ascolti altrui.

Ma non necessariamente un disastro – almeno non di dimensioni epocali. Di musica, comunque, io ne ho sempre ascoltata tantissima.

Da che ricordi la mia vita di adolescente è sempre stata un unico interminabile viaggio, in bici e a piedi, da casa a scuola, sempre, costantemente, ostinatamente a ritmo di musica.

Di quelle cose che se una canzone non era ancora finita quando arrivavo a destinazione allungavo la strada per lasciarla finire.

Oppure che se il lato di una cassetta audio terminava mentre ero in mezzo alla strada (quando ancora non esisteva il reverse automatico) mi fermavo nel traffico per girarla.

Cose così, ecco. Tanto che ci sono canzoni che ancora adesso mi cambiano non solo l’umore, ma proprio il passo quando cammino. O l’accento quando parlo. O che mi ritrovo a ripetere a mente, a mo’ di mantra, come fossero il più appropriato commento a quel determinato momento della vita. Una parola, due, versi interi che corrispondono spesso a movimenti ben precisi. Dentro e fuori da me.

Per tornare al punto di partenza: il fatto è che io tutta questa musica, ripetuta all’infinito nelle orecchie a fare silenzio fuori e rumore dentro, l’ho presa da altri, lasciandola entrare secondo i principi più disparati e le motivazioni più eclettiche: piaceva al tipo che mi piaceva; me ne ricordava un’altra; mi intrigava la copertina del cd, l’accento, la voce, gli occhi del cantante, oppure, ancor più semplicemente, riuscivo a capirne il testo. Poi però finivo per farla mia, mia e basta, in modo totale ed esclusivo. Tanto che quando cercavo di condividerla finivo per diventare persecutoria e uscire distrutta dal contatto con i poveretti (e le poverette) ai quali cercavo di far arrivare, in sostanza, mica la canzone in sé: me stessa.

Per molto tempo quindi non sono stata nemmeno capace di definire stili, generi, scuole; si trattava esclusivamente di una cosa tra me e lei, del tipo ‘musica, convincimi e avrai la mia eterna fedeltà’. E basta.

E alla fine, anche se dalla musica io ho avuto – e continuo ad avere – tanto (le cuffie fanno ancora oggi parte del mio outfit quotidiano, se le dimentico o si rompono è un dramma), ecco, questo volevo dire: non credo di aver mai ascoltato qualcosa che potessi definire ‘della mia generazione’. Niente che mi facesse sentire parte di un sistema più grande e comprensivo, niente che ascoltassero anche ‘quelli della mia età’. Semmai l’ascoltavano quelli che piacevano a me – intendo: un filtro, uno specchio, un diaframma c’era, ovviamente – ma era comunque frutto di una selezione estrema, spesso solo mia e ancora pià spesso segreta e inconfessabile.

Non è nè una cosa di cui mi vanto, nè qualcosa di cui mi pento (non che non abbia fatto entrambe le cose in passato): è solo che, ancora una volta, mi ritrovo a fare i conti con una gestione dei ritmi sostanzialmente, se non del tutto libera, mia. Mia e basta.

Il mio solito, solitario fuori tempo, insomma.