LA SECONDA PARTE DELLE FRASI

La seconda parte del verso di quella canzone dei Rolling Stones che dice che non sempre  puoi ottenere quel che vuoi, aggiunge che però, se ci provi, può darsi che tu ottenga quello di cui hai bisogno.

Ed è vero che Bruce Springsteen in Atlantic City canta che beh, tutto muore prima o poi. Ma è anche vero che conclude che però può anche darsi che un giorno o l’altro ritorni.

Quindi.

Dal momento che per certi versi mi sento ancora come se non avessi mai smesso, chessò, di portare l’apparecchio per i denti o quell’orrendo paio di occhiali dalla montatura gialla che usavo alle medie, e che in fondo so che non smetterò mai del tutto, tanto vale che da questo momento in poi io faccia semplicemente finta di niente e vada avanti: oltre le interruzioni, oltre le virgole ché le frasi hanno sempre una seconda parte.

Perché in fondo pensateci: la cosa più commovente di quell’inflazionatissimo brano de ‘Il Piccolo Principe’ sulla volpe che si affeziona e che finisce per soffrire non è tanto il racconto di come l’amore nasca e di come faccia male perderlo: è il fatto che, pur sapendolo, la volpe si affezioni lo stesso.

Quindi petto in fuori, mani calde, occhi ben aperti e arroganza fuori dalla porta. Basta ricordarsi sempre che dall’altra parte ci sono delle persone. Anche quando sono lontane, anche quando non si è sicuri che si ricordino che lo siete anche voi.

E per il resto siate gentili.

(update – Febbraio 2014 – Maggio 2016)

GLI ELEFANTI SONO NELLA CRISTALLERIA (MA LO SANNO)

Non ho idea di cosa mi aspettassi esattamente andando a vedere ‘Monuments Men’. Certo, qualcosa pensavo; attoroni, registone, titolone: the american way, insomma. Ma forse ero curiosa di vedere proprio questo; come funzionasse ‘the american way’ con un argomento che mi sta così a cuore e che è di mostruosa attualità: il ruolo dell’arte e la sua tutela in tempi di drammatica, sistematica distruzione. Una meravigliosa, fin troppo chiara metafora del nostro oggi, in Italia, e di non molto tempo fa per altri paesi– soprattutto per gli ammerigani di media memoria e di un certo intelletto. Come George Clooney, appunto.

Certo, io parto da presupposti che sono miei e solo miei – criticabilissimi, dunque.

Sono un’amante dell’arte, prima di esserne una studiosa – non che le due cose possano essere davvero distinte; il che significa che piango a vederla bistrattata, ne sento la fragilità direttamente sulla pelle. Ma sul serio, intendo: vedere il duomo di Assisi franare dopo il terremoto mi ha fatto venire il mal di stomaco, prima ancora di chiedermi se qualcuno fosse rimasto sotto le macerie.

Ovviamente l’arte è un prodotto culturale, è fragile per definizione. Più fragile dell’uomo che l’ha creata e che ne è custode, perché non ha braccia per difendersi, gambe per scappare, una bocca per chiamare aiuto: è più o meno così che la penso.

Andrebbe difesa con la vita, sì, e io non so se io lo farei.

Ma solo perché non so quanto coraggiosa sono. Davvero, non lo so. E so anche che una vita umana vale di più, rassicuratevi.

Tutto questo per dire che la storia raccontata in questo film non è un dramma da poco.La storia dei ‘monuments men’ è, soprattutto per queste ragioni, bellissima. Quella vera ancora di più: è la storia di un’organizzazione voluta e finanziata dal governo americano che durante e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ha sostenuto l’attività di quasi 400 studiosi, funzionari di museo, storici dell’arte e collezionisti alla ricerca delle opere d’arte trafugate dai Nazisti per la gloria e la celebrazione del Reich.

Come la racconta Clooney?

La racconta da americano.

Anzi, non avevo mai visto e percepito Clooney così americano. Lo sapevate che Clooney è americano, si?

Ecco, ricordatevelo bene, perchè non ha intenzione di tenerlo nascosto.

Questo film è americanissimo. Americanissimo alla maniera di un western. C’è il gruppo di eroi, c’è l’epica di una sceneggiatura fatta di battute fulminanti, sarcasmi da sorriso stretto e tanta, tanta gigioneria anni ’50 – Tra l’altro, sapevo già che a Clooney piace tanto giocare a fare Clarke Gable, ma non che Matt Damon potesse diventare così ‘forties’ (e Jean Dujardin è il francese più ‘americano anni ’40 che io abbia mai visto).

Ma c’è una cosa in più che, a mio parere, ha cambiato completamente il mio modo di guardare questo film: Clooney tutte queste cose le sa. Le sa, le usa, le sottolinea, ci gioca e se ne compiace.

Perché secondo me non c’è istante in cui i protagonisti non si rendano conto di essere degli elefanti in una cristalleria: non sono mai, mai portatori di sapienza infusa, vincitori in pectore, salvatori del mondo: sono poveri diavoli che si barcamenano tra quello che sanno e quello che non sanno e non capiscono; che hanno una terribile nostalgia di casa, tanto lontana e tanto diversa. Che si lasciano persino deridere dal sarcasmo francese, perché dalla Francia, dall’Italia, dall’Europa sono attratti e affascinati. E ci provano pure a dirci: ‘cowboys un cazzo gente, mica tutti sappiamo sparare. Mica tutti sappiamo cavalcare senza sella, beccare il bersaglio e far saltare ferrovie’. Anzi.

Insomma, c’è rispetto in questo film. Rispetto per la distanza, fisica e culturale, tra due mondi che solo apparentemente si sono incontrati.

Una distanza che permette per prima cosa di accettare che un regista americano faccia un film western sul salvataggio delle opere d’arte europee durante la Seconda Guerra Mondiale (e perché no, caspita, dai, sono anche cosa loro!) – e che soprattutto ti fa pensare: ma quanto, quanto ce la tiriamo noi, con i nostri giochi mentali da vecchia Europa? Cosa c’è di male ad essere così entusiasti di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, dei pittori fiamminghi, porca miseria?

(A volte vorrei averla io la metà della curiosità e dell’entusiasmo che hanno gli americani, giuro).

Seconda cosa, e nemmeno questa è da poco, una volta che hai capito dove va a parare il western te lo godi proprio. E alla fine è pure bello quando ti ritrovi a pensare che è davvero una fortuna che quei cattivoni dei Russi non siano arrivati in tempo per prendersi Michelangelo.

Ma questo è spoiler: mica vorrete sapere come va a finire, vero?

Nota a piè di pagina: gli errori più grossolani sono tutti imputabili al doppiaggio. Sempre più mi convinco che film come questi vadano visti in lingua originale: a maggior ragione perché sembra non sia necessario: lo è eccome.

Ah, un’ultima cosa: cercatevi la storia di Rose Valland, alla quale si è ispirato il personaggio di Kate Blanchett. Ne vale davvero la pena, fidatevi.

NO REDEMPTION HOME (Getting inside Llewin Davis)

 

Quando guardo i film dei fratelli Coen vedo sempre due storie: quella raccontata e quella del racconto. Si riflettono, ovviamente, come sempre nei film dovrebbero fare. Solo che nei film dei Coen possono anche esistere indipendentemente senza che questo renda la loro regia un limitato esercizio di stile.

Non so come ci riescano, a rendere tutto così necessario.

Voglio dire, persino il compiacimento visivo della fotografia è necessario, nei film dei fratelli Coen. O i ghirigori del montaggio.

Ci sono alcuni momenti – ben calibrati, ben scelti – in cui la tecnica sembra liberarsi dalla storia, girarci intorno, lasciarla indietro. Insomma, dialogarci alla pari, con la dignità di un linguaggio diverso e complementare.

Non l’ho mai visto fare con tanto equilibrio.

E la sensazione più bella che ne ricavo è quella di non avere scampo, perché da quella storia, vista, montata, raccontata così, non potrò facilmente uscire. Dovrò seguirla, guardarla e ascoltarla accadere, srotolarsi sullo schermo esattamente con quei colori, con quella luce, quei dialoghi e quelle sequenze.

E tenermela incastrata a lungo nella memoria.

E’ per questo che ‘Inside Llewin Davis’ sono andata a vederlo da sola, quasi di nascosto, gongolando della mia solitudine: perché era in qualche modo necessario.

Niente di romantico, tutto molto reale.

‘Su, raccontatemi questa storia, mostratemela, montatemela e fotografatela per me’. Io arrivo fino al cinema, faccio la fila alla cassa ed entro in sala. Voi fate il resto.

Direi che anche questa volta è andata.

 

(Nota a piè di pagina: come volevasi dimostrare, volevo parlare della storia, ho scritto di come la storia è stata raccontata).

 

WOP-BOP-A-LOOM-A-BLOP-BAM-BOOM, MR. HOFFMAN

Ho visto ‘The Boat that Rocked’ per la prima volta una settimana fa.

Succede sempre così: era lì da anni, consigliato dal mio migliore amico ‘devi vederlo, oh, ti piacerà!’

Beh, è così che succede sempre, no? Questa cosa degli incontri: anche quando li prepari, è difficile che accadano quando vuoi farli accadere.

Così, ho finito per vedere il film solo una settimana fa oggi.

E dentro ci ho trovato Philip Seymour Hoffman.

Ce l’ho trovato senza pensarci e mi sono detta: ‘Oh, caspita se sei bravo, caspita. Non mi deludi proprio mai’.

In realtà ho pensato molto più di questo ma ora non è che riesca a dirlo.

In realtà, se devo dirla tutta, ho anche pianto.

Come ho pianto ieri, alla notizia che era morto.

Ma morto tipo come negli anni ’70, alla vecchia maniera.

Come la rockstar maledetta che non sembrava.

Come l’uomo scosso e tormentato che non pensavo che fosse.

Perché ovvio, io di lui non so proprio niente; so i suoi personaggi, so le storie che mi ha raccontato.

E visto che il lutto lo vivono ovviamente quelli che restano, è con un suo personaggio che ho pianto di nuovo: riguardando ‘The Boat that Rocked’.

Ho ripensato a quanto (tanto!) fosse bello, intenso, coinvolgente quest’uomo, a quanto in due ore di film io sia passata attraverso tutti i protagonisti per poi tornare a concentrarmi su di lui, su quel suo Conte fatto di stivali da cowboy, giacca di pelle e accento strascicato. Old style, spaccone, romantico e irrimediabilmente coglione.

Due scene avrei inserito qui, ora, per ricordarlo.

La prima è quella in cui il Conte si ritrova a chiaccherare con il giovane Carl a prua della nave, una birra in mano, gli occhi arrossati dal pianto che non vuole mostrare mentre gli parla di un pensiero fisso che non avrebbe voluto avere: quello di aver vissuto i giorni migliori della sua vita, di aver raggiunto la cima della montagna: da qui la discesa sarà inevitabile e veloce, dice con un sorriso amaro.

La seconda, quella che ha visto me asciugare furtiva le lacrime che non volevo mostrare, è quella della sfida tra il Conte e Gavin, colpevole di aver tradito l’amicizia di Simon (‘è solo andato a letto con la moglie di un altro!).

I due devono salire l’albero maestro della nave: la sfida deciderà una volta per tutte chi è il coniglio tra i due. Una volta in cima, il conte non desiste: rimane il pennone, a picco sul mare. Bestemmiando e incespicando, raggiunge l’estremità. E’ ormai evidente, la sfida è assurda, il risultato pericoloso; resta l’infantile ostinazione di volersi mostrare più forte dell’altro.

Ma ormai sotto c’è solo il mare.

Ostentando sicurezza il Conte apre le braccia e si lancia nel vuoto sussurrando:

‘Wop-bop-a-loom-a-blop-bam-boom’.

Tuttifrutti.