Non ho idea di cosa mi aspettassi esattamente andando a vedere ‘Monuments Men’. Certo, qualcosa pensavo; attoroni, registone, titolone: the american way, insomma. Ma forse ero curiosa di vedere proprio questo; come funzionasse ‘the american way’ con un argomento che mi sta così a cuore e che è di mostruosa attualità: il ruolo dell’arte e la sua tutela in tempi di drammatica, sistematica distruzione. Una meravigliosa, fin troppo chiara metafora del nostro oggi, in Italia, e di non molto tempo fa per altri paesi– soprattutto per gli ammerigani di media memoria e di un certo intelletto. Come George Clooney, appunto.
Certo, io parto da presupposti che sono miei e solo miei – criticabilissimi, dunque.
Sono un’amante dell’arte, prima di esserne una studiosa – non che le due cose possano essere davvero distinte; il che significa che piango a vederla bistrattata, ne sento la fragilità direttamente sulla pelle. Ma sul serio, intendo: vedere il duomo di Assisi franare dopo il terremoto mi ha fatto venire il mal di stomaco, prima ancora di chiedermi se qualcuno fosse rimasto sotto le macerie.
Ovviamente l’arte è un prodotto culturale, è fragile per definizione. Più fragile dell’uomo che l’ha creata e che ne è custode, perché non ha braccia per difendersi, gambe per scappare, una bocca per chiamare aiuto: è più o meno così che la penso.
Andrebbe difesa con la vita, sì, e io non so se io lo farei.
Ma solo perché non so quanto coraggiosa sono. Davvero, non lo so. E so anche che una vita umana vale di più, rassicuratevi.
Tutto questo per dire che la storia raccontata in questo film non è un dramma da poco.La storia dei ‘monuments men’ è, soprattutto per queste ragioni, bellissima. Quella vera ancora di più: è la storia di un’organizzazione voluta e finanziata dal governo americano che durante e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ha sostenuto l’attività di quasi 400 studiosi, funzionari di museo, storici dell’arte e collezionisti alla ricerca delle opere d’arte trafugate dai Nazisti per la gloria e la celebrazione del Reich.
Come la racconta Clooney?
La racconta da americano.
Anzi, non avevo mai visto e percepito Clooney così americano. Lo sapevate che Clooney è americano, si?
Ecco, ricordatevelo bene, perchè non ha intenzione di tenerlo nascosto.
Questo film è americanissimo. Americanissimo alla maniera di un western. C’è il gruppo di eroi, c’è l’epica di una sceneggiatura fatta di battute fulminanti, sarcasmi da sorriso stretto e tanta, tanta gigioneria anni ’50 – Tra l’altro, sapevo già che a Clooney piace tanto giocare a fare Clarke Gable, ma non che Matt Damon potesse diventare così ‘forties’ (e Jean Dujardin è il francese più ‘americano anni ’40 che io abbia mai visto).
Ma c’è una cosa in più che, a mio parere, ha cambiato completamente il mio modo di guardare questo film: Clooney tutte queste cose le sa. Le sa, le usa, le sottolinea, ci gioca e se ne compiace.
Perché secondo me non c’è istante in cui i protagonisti non si rendano conto di essere degli elefanti in una cristalleria: non sono mai, mai portatori di sapienza infusa, vincitori in pectore, salvatori del mondo: sono poveri diavoli che si barcamenano tra quello che sanno e quello che non sanno e non capiscono; che hanno una terribile nostalgia di casa, tanto lontana e tanto diversa. Che si lasciano persino deridere dal sarcasmo francese, perché dalla Francia, dall’Italia, dall’Europa sono attratti e affascinati. E ci provano pure a dirci: ‘cowboys un cazzo gente, mica tutti sappiamo sparare. Mica tutti sappiamo cavalcare senza sella, beccare il bersaglio e far saltare ferrovie’. Anzi.
Insomma, c’è rispetto in questo film. Rispetto per la distanza, fisica e culturale, tra due mondi che solo apparentemente si sono incontrati.
Una distanza che permette per prima cosa di accettare che un regista americano faccia un film western sul salvataggio delle opere d’arte europee durante la Seconda Guerra Mondiale (e perché no, caspita, dai, sono anche cosa loro!) – e che soprattutto ti fa pensare: ma quanto, quanto ce la tiriamo noi, con i nostri giochi mentali da vecchia Europa? Cosa c’è di male ad essere così entusiasti di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, dei pittori fiamminghi, porca miseria?
(A volte vorrei averla io la metà della curiosità e dell’entusiasmo che hanno gli americani, giuro).
Seconda cosa, e nemmeno questa è da poco, una volta che hai capito dove va a parare il western te lo godi proprio. E alla fine è pure bello quando ti ritrovi a pensare che è davvero una fortuna che quei cattivoni dei Russi non siano arrivati in tempo per prendersi Michelangelo.
Ma questo è spoiler: mica vorrete sapere come va a finire, vero?
Nota a piè di pagina: gli errori più grossolani sono tutti imputabili al doppiaggio. Sempre più mi convinco che film come questi vadano visti in lingua originale: a maggior ragione perché sembra non sia necessario: lo è eccome.
Ah, un’ultima cosa: cercatevi la storia di Rose Valland, alla quale si è ispirato il personaggio di Kate Blanchett. Ne vale davvero la pena, fidatevi.