NOI, 1997

Primo gennaio 1997 – fotografia di una notte di inizio anno.
Quattro figure si muovono barcollanti nel bianco abbacinante della neve, sagome scure ritagliate sullo sfondo dei palazzi silenziosi, ammutoliti sotto una coltre di bianco.
Camminano diritte, seguendo i segni tracciati da qualche auto nella neve fresca, le spalle strette, gli sguardi attenti rivolti a terra.
La neve continua a cadere nel silenzio più assoluto, scosso solo dai tenui tonfi dei loro passi.
Sono amici, da molti anni.
Camminano come in carovana, uno dietro l’altro, lentamente. Apre la fila un ragazzo alto, i capelli sottili appiccicati alla fronte. A tratti si volta indietro, rivolge qualche parola agli altri, li attende, quasi sentisse su di sé la responsabilità dell’intero gruppo. Si muove armoniosamente nonostante l’impaccio mentre scaccia il freddo davanti a sè muovendo le braccia e agiatando la testa.
Lo segue una ragazza,la gonna lunga e i piedi bagnati. Cammina piano,i movimenti impediti dalla neve e dall’ abito. il suo volto è completamente coperto da una sciarpa scura ma la testa si muove intorno incessantemente, quasi rincorresse i fiocchi che le si posano sul viso.
Distanziati di qualche metro, gli altri due avanzano quasi affiancati,il passo più stanco. Sfidano a tratti il silenzio, gettandosi l’un l’altro brevi cenni di conversazione.
Il più piccolo si muove contratto, stretto nelle spalle e quasi intimidito dal freddo. Ha i capelli lunghi che gli cadono a ciocche sul viso sottile e bagnato dalla neve, lo sguardo rifugiato dietro la sciarpa. L’altro è più alto e ha le spalle larghe. Non porta nessuna sciarpa e si lamenta del gelo pungente. I suoi passi però sono più rapidi e il suo umore sembra il migliore.
Un’ intensa luce madreperlacea immortala l’intera scena. Tenui toni rosati la colorano a tratti. L’atmosfera è immobile, sospesa, e la neve intorno rende tutto irreale.
Come se quel tutto stesse aspettando, un’ attesa gravida di promesse. Come se quel bianco, indifferente gelo stesse per rivelare chissà quale vita calda, covata silenziosamente al suo interno.
O come se chissà quale verità dovesse svelarsi da un momento all’ altro, come un urlo improvviso in quel pesante silenzio.

(Silvia rilegge e corregge Silvia. E’ domenica, ieri ha nevicato e io ho bevuto molto tè – e un calice di rosso biologico francese)

SPIEGARE BENE A PORTA GENOVA

Ieri sera sono andata a un incontro presso l’Hub PD di Porta Genova: si parlava di Europa, in particolar modo di come funzionano – o come dovrebbero funzionare – il suo bilancio, il piano Junker e il famigerato TTIP.
Chi mi conosce sa che non si trattava esattamente della mia tazza di tè. Anzi, direi proprio per nulla.
Parlava però, tra gli altri, Daniele Viotti, uno dei candidati del PD che ho votato alle scorse europee e che ora è in commissione bilancio a Bruxelles. E a me insomma, piaceva questa cosa: che una persona che anche grazie a me ha ottenuto un incarico tanto importante venisse nella mia città a parlarmi delle cose di cui si sta occupando.

L’incontro funzionava così: tre ospiti, tre economisti o specialisti in materia, avrebbero rivolto a Viotti delle domande. Lui poi avrebbe risposto.
Lo spazio era piccolo e raccolto, le persone non molte: peccato, ho pensato, perché l’argomento era di una certa importanza. Tanto che guardando le facce dei presenti riflettevo con un po’ di soggezione: ma ne sapranno già tutti più di quanto ne so io?
Probabilmente si. Infatti gli ospiti sono stati tutti presentati con il solo nome di battesimo. Ora, io i loro nomi già li conoscevo, nel senso che li avevo letti sulla pagina facebook dell’evento. Non conoscevo le persone, certo, e avevo ben pochi riferimenti tranne quello che potevo intuire: cioè che si occupassero degli argomenti trattati.
Penso però che mi sarebbe stato utile avere in quel momento un’informazione che altrimenti non avrei saputo dove mettere e come usare: per sentirmi se non altro un pochino più coinvolta.
Comunque ho deciso di passarci ostinatamente sopra: volevo capire, ce l’ho messa tutta. Sono un’umanista piuttosto intuitiva che sa come prendere appunti seguendo un discorso: non mi era tutto chiaro ma credo di aver colto il cuore di ognuno degli interventi, anche se confesso che rileggendo quello che ho scritto un po’ sorrido, perché ogni tanto sbuca un ‘non si capisce un cazzo’ circondato da un gran numero di punti di domanda e cancellature. Vi assicuro però che era più uno sfogo che altro.

Viotti sedeva al centro e prendeva appunti: è una cosa che gli ho visto già fare e che all’inizio avevo scambiato per distrazione, semplicemente perché ormai molte persone ai dibattiti ogni tanto si perdono a guardare lo schermo del telefono (è successo anche ieri sera, è una cosa che mi fa sempre strano ma mi sa che ormai non ci si possa fare granchè – i dibattiti si svolgono spesso in contemporanea anche sui social networks). Quando è stato il suo turno si è alzato in piedi (anche questo gliel’ho già visto fare, è un gesto piuttosto apprezzabile lasciare che tutti ti guardino in faccia) e ha cominciato a parlare.
Ecco, direi che mi sono ritrovata a riflettere forse per la prima volta lucidamente su quale fosse la differenza, in quella stanza, tra i ‘tecnici’ e il ‘politico’. E con politico intendo politico vero, o come un politico dovrebbe essere a mio parere: semplicemente (beh, semplicemente mica tanto), un diverso tipo di comunicatore.
Non che i tecnici non fossero comunicatori, anzi. Avevano dei contenuti da comunicare e li comunicavano. E’ che io, da non bevitrice di quella tazza di tè, faticavo non poco ad allontanare da me la sensazione che non li volessero comunicare A ME.
Lo so che quando ci si trova a parlare di argomenti molto specifici succede spesso che si cominci a utilizzare una specie di codice cifrato (che è utile, nonché comodo, perché denso di rimandi e significati): lo fanno gli economisti tanto quanto gli storici dell’arte (che poi nello specifico sarei io). Se poi ci si chiama per nome e ci si lanciano sguardi d’intesa annuendo complici è più o meno finita, perché si crea quella odiosa situazione che ho sempre mal sopportato fin dai tempi dell’università e degli incontri di filosofia, dei cineforum a tema e delle conferenze sui capitelli delle chiese medievali: la situazione noi/voi, roba nostra/non vostra, mi-dispiace-ma-non-potete-capire-perché- non-avete-letto-tutto-quello-che-invece-abbiamo-letto-noi-accontentatevi-di-queste-cose- che-noi-lasciamo-cadere-dall’alto-sulle-vostre-teste.

Ecco. Io invece li stessi argomenti in bocca a Daniele Viotti li capivo molto meglio.
Sarà stato pure che ci avevo preso la mano, eh, dopo un’oretta di dibattito e appunti furiosi. Il fatto è che avrei voluto sentirlo parlare ancora semplicemente perché riuscivo a seguirlo senza troppa fatica, e non solo perché si esprimeva in modo chiaro, ma perché lo faceva- e vengo quindi al dunque- in maniera estremamente corretta.
E con corretta non intendo in senso grammaticale (cosa per niente scontata ma non oggetto di questo post) intendo proprio correttezza nel rapportarsi con il pubblico di ascoltatori: senza dare nulla per scontato.
Che sembra semplice a dirsi ma non lo è.
Perché se è vero che l’economia e la politica economica europea nello specifico sono argomenti complessi e di non facile comprensione (ma dai?), la stessa cosa vale per qualsiasi materia nel momento in cui ci si proponga di analizzarla con profondità e completezza.
Ma un modo lo si deve trovare sempre: ne va, molto semplicemente, dell’importanza delle cose.