SHE WROTE ‘DEAR MICHAEL’

Mi sono sempre detta che non sarei mai riuscita a scrivere per bene di Michael e me, quindi credo che non ci riuscirò nemmeno questa volta.
Michael è Michael Jackson, giusto per chiarire. E mentre lo scrivo lo ripeto piano, sottovoce, come fosse un mantra o una preghiera: perché l’ho ripetuto talmente tante volte nella vita, ma così tante e in tutte le possibili intonazioni, che mi è difficile riuscire a spiegare quanto mi suoni familiare. Quasi come respirare, ecco, tipo così.
Michael lo conosco da quando avevo 12-13 anni. Mi ero appena fidanzata – una rocambolesca lettera d’amore che mi piacerebbe tanto rileggere, consegnata a mano al ragazzo che mi piaceva sotto i portici davanti alla galleria in centro, a Cremona.Ovviamente, Michael piaceva a lui.
E ovviamente io con lui mi ci sono messa per restarci tutta la vita.
Quindi Michael l’ho ascoltato da innamorata. Prima di lui (biondo, occhi azzurri, accentratore e paraculo – mi sa che ve ne ho già parlato), poi, appunto, di Michael.
Una storia durata infiniti sabati pomeriggio chiusi in stanza con lo stereo acceso a pomiciare, a discutere su quale fosse la canzone migliore, a cercare di buttare giù i testi, ché l’inglese avevo iniziato a studiarlo in prima media. Ancora oggi, quando sono rilassata e non penso troppo, l’accento che sento riecheggiare nella mia voce quando parlo inglese è il suo. Con le ‘s’ un po’ strascicate e gli accenti che cadono dolci – quasi timidi.
Come lui, l’uomo più patologicamente timido che abbia mai visto fare la rockstar. L’uomo pubblico più nascosto del mondo. Il più contraddittorio, il più inquietante, il più indifendibile.
E l’unico, infatti, che io mi sia sentita in dovere di difendere strenuamente, con la forza folle della mia adolescenza innamorata; il primo che io abbia mai ascoltato fino allo sfinimento, fino a memorizzarne ogni minimo accento, gesto, movimento.
Il primo che mi ha fatto conoscere la musica – e non solo la sua – e il ritmo, la solitudine più assoluta, la gioia della condivisione.
Il primo, dunque, ad avermi insegnato tante cose che sono mie ancora oggi.
Ascoltavo Michael e ancora non avevo mai fatto l’amore. Ancora non avevo mai viaggiato veramente, non avevo mai vissuto da sola: ancora non ero veramente niente.
Adesso che non solo quel momento non tornerà più (non fraintendetemi, va benissimo così) e che nemmeno Michael tornerà più, ogni volta che ci penso – come oggi – mi ritrovo a cullarmi in un caldo senso di familiarità che miracolosamente è ancora intatto.
E se mi capita di sentirlo ridere – quella meravigliosa risate cristallina che gli faceva illuminare gli occhi come due fanali – sorrido sempre anch’io. Sempre, sempre, sempre.
Come se ci fosse un segreto tra noi due; un segreto bellissimo, fragile, piccolo piccolo, che però se ne sta lì, sfrontato abbastanza da non permettersi di appassire.

THE REAL THING (vita da parco)

IMG_20150623_132127

La prima cosa che ho pensato di volermi ricordare è stato il profumo dell’erba del parco; ho quasi quarant’anni, direi che posso permettermi di essere romantica.
Il profumo dell’erba del parco, dunque, quello che mi ha avvolto nel momento in cui mi sono seduta tra le transenne, davanti all’ingresso, in coda sparsa alle 9 del mattino di sabato 20 Giugno 2015.
Hyde Park, pensa un po’, di nuovo Hyde Park.
Di nuovo i Blur.
Di nuovo noi, a Londra, per un concerto dei Blur.
Questa volta, però, con alcune concessioni. Un ostello, per esempio. La sveglia mattutina non così mattutina. Una bella colazione, chiacchere, una passeggiata rilassata nel verde.
Per arrivare, appunto, al profumo dell’erba.
E nell’erba, intorno, facce note. E’ quello che succede anno dopo anno, quando decidi di andare per l’ennesima volta a un concerto del gruppo che segui da sempre: la mattina presto ci sono sempre le stesse persone. Mi piace, rivedere sempre le stesse persone. La prima fila di un concerto è una sorta di appuntamento fisso, un’occasione per aggiornarsi sulle vite altrui. Come va, che hai fatto recentemente, cose così. Per di più spesso in quella lingua franca che è l’inglese, che quando la usi ti fa sentire lontano e vicino allo stesso momento, mentre cerchi di adattare l’orecchio agli accenti più vari e lasci che il tempo passi.
Perché ha una strana qualità il tempo mentre aspetti lì, prima che aprano i cancelli, poi che cominci un concerto e tu, semplicemente, devi occupare un posto – in coda prima, davanti alla transenna poi. Per il resto devi solo correre più veloce degli altri, calcolare le soste al bagno – che da un certo momento in poi non puoi fare più – e avere con te scorte sufficienti di cibo. Poco altro. Per esempio sabato scorso era importante avere qualcosa per proteggersi dall’acqua e dal freddo; è stato in mio primo concerto bagnato, ma anche la mia prima giornata passata quasi completamente in piedi, per questione di sicurezza. E la folla dietro ha cominciato a spingere e smaniare molto presto. E io non ero in perfette condizioni fisiche, perché reduce da un’operazione alla spalla alla quale sono stata sottoposta meno di un mese fa.
Sono tutte cose che contano e contano molto in quel microcosmo strano che è la prima fila di un concerto, sopratttutto se calcoli che da un certo momento in poi non potrai più muoverti come vorrai. Che sarà difficile girarti, allacciarti una scarpa, a volte persino grattarti il naso o sollevare il telefono per fare una foto, anche perché se piove potrebbe scivolarti e cadere mentre tu non sei propriamente padrona nemmeno dello spazio ai tuoi piedi.
E dunque, perché?
Confesso, non sono sicura di saper rispondere.
Il fatto è che per me vissuto così un concerto appartiene non solo alla categoria dell’udito, ma anche a quella della vista. Perché a me piace da impazzire osservare quello che succede sul palco, godermi quell’atmosfera tecnica e professionale che regna ovunque: il dietro le quinte che ti avviene lì, sotto il naso; i gesti, i movimenti, gli sguardi d’intesa; gli errori, le corse per rimediare. Così come mi piacciono gli scambi di battute con gli uomini della sicurezza, che ti chiedono se va tutto bene con un’occhiata indagatrice o si portano indice e pollice alla bocca per sapere se hai bisogno di bere.
Quella che vivi dalla prima fila è una musica piena di cose.
E tra tutte queste cose i musicisti suonano.
Ed è ovvio che è bello, davvero bello cantare insieme a loro – guardarli che ti guardano, anche se sai che è difficile che ti vedano per davvero, per il semplice motivo che loro sono pochi, noi siamo tanti.
Una volta un amico mi ha stupito dicendomi di non amare i concerti dal vivo in quanto occasioni per nutrire gli ego: il proprio e quello di chi sta sul palco. Ci ho pensato tantissimo e sono arrivata alla conclusione che è vero, assolutamente vero. E anche se a me, a conti fatti, non importa poi un granchè di essere riconosciuta, mi importa molto, questo sì, di nutrire l’ego altrui. Diciamo che è il mio modo di ringraziare per la musica, le emozioni, quelle cose lì che sapete bene.
Ché tanto le persone che hai davanti non sono le stesse che pensi di conoscere – non sono proprio proprio le stesse che ti suonano e cantano nelle cuffie quando stai passando una bella giornata (o una brutta), che ti cambiano l’umore, che ti esaltano, che semplicemente danno ritmo al tuo passo quando cammini (io cammino a tempo con la musica nelle orecchie, anche voi, no?).
E poi, non ultimo, c’è questo fatto che a un concerto si è tutti insieme, e che tutti insieme ci si agita e si canta. Stonando da morire, dondolando la testa, alzando le mani. Si urla, si ride, ci si commuove. Si piange persino. E si fa amicizia con le persone accanto. Che se poi sei fortunata ti rimangono amiche e ci vai insieme ad altri concerti (è successo a me, sono stata molto fortunata).

Quello che pensi, quello che provi quando ti ritrovi immersa in quella musica lì, quella che ascolti a casa e che sul disco è sempre uguale e che invece suonata live è farcita di variazioni, modifiche, movimenti, sguardi, sorrisi che non puoi certo prevedere, quello beh, è materiale per quel romanticismo di cui parlavo all’inizio, quello che parte dal profumo dell’erba.
Io però per pudore quello me lo tengo per me.
Perché come dicevo, ho quasi quarant’anni: posso permettermi anche questo.