IL RIPOSO DELL’IMPERATORE

Non sono del tutto sicura che questo post sia necessario, quindi scrivo.

Scrivo per dar forma a quell’idea che ho sempre avuto del Ferragosto come di quel giorno strano e prezioso nel quale si raggiunge il culmine di una salita – esattamente poco prima di cominciare a scendere.
Perché sono nata in Agosto e ho sempre vissuto questo momento dell’anno con una certa malinconia: non solo perché il mio compleanno cade alla fine del mese – troppo presto per festeggiarlo con i compagni di scuola, troppo tardi per considerarlo una festa davvero estiva. Ma anche perché Agosto, dove sono cresciuta, è sempre stato il mese più lento dell’anno. Avanzava trascinando i piedi, l’aria densa di afa e cicale, con lo stesso ritmo della corrente pigra del Po, tra giri in bicicletta nelle strade assolate e deserte – pedalando senza mani al centro della strada.
Ecco, il mio compleanno è sempre stato la chiusa perfetta per tutto questo; una specie di ‘evviva, finalmente qualcosa finisce’, appena sussurrato però, perché ancora per poco si poteva far finta di nulla.

Quest’anno ho deciso di fare diversamente: certo, non si tratta più di cercare gli amichetti da invitare a casa o di pensare ai compiti da finire…no, beh, in realtà invece sì.
Perché per molti versi fino ad ora questo è stato davvero un Agosto di amichetti e compiti. Dove per amichetti intendo le persone che ho voluto e che sono state con me in questi giorni – dico persone e intendo compagni, nell’accezione più ampia e bella del termine – e per compiti le riflessioni che hanno affollato le mie giornate, spesso trascorse in modo molto simile a quelle dei miei agosti passati: in bicicletta, lungo l’acqua di un canale, ad accelerare al ritmo della musica nelle orecchie – pedalando senza mani al centro della strada.
Me lo sono ripromessa il primo giorno del mese: quest’anno Agosto è mio. Voglio vivermelo per bene, giorno per giorno, pensiero dopo pensiero, passo dopo passo, pedalata dopo pedalata.
Mi sono ripromessa musica, libri, riposo.
Mi sono ripromessa montagne e montagne di attimi significativi.
Mi sono ripromessa di aprire gli armadi della mente e e gli archivi del petto per fare ordine. Senza fretta, senza ansia e senza paura.
Perché vedete, se c’è una cosa che adesso so per certo è che la maggior parte delle volte non è necessario dare un senso a tutto, tutto, tutto. Come non è necessario cercare di risalire la catena degli eventi per trovare il momento zero di ogni avvenimento, pensiero, emozione o sentimento.
Sarebbe sufficiente capire cosa farsene, di tutte queste cose.
Capire che non sempre bisogna per forza prendere decisioni nette, svoltare con decisione, distogliere lo sguardo o andarsene – da qualcosa o da qualcuno.
No.
Basta trovare il posto giusto; che sia un cassetto o un posto nel cuore. Trovare il posto giusto per qualcosa o per qualcuno è come trovarci l’interruttore e farli funzionare: li puoi usare. Questo significa che sono veramente tuoi: puoi prenderli se servono. Ricordarli se ne hai bisogno. Accenderli per illuminare la strada, nuova o vecchia che sia, quando fa buio.
Io è in questo modo che sto cercando di mettere ordine. Ho cominciato a farlo dal primo giorno di questo mese tutto mio, ora sono a metà del lavoro e sto pensando che forse da domani tutto sarà più facile, dal momento che inizierà la discesa.

Dunque oggi sono sulla cima.
Aspetto che la canzone arrivi al punto che dico io e poi vado a prendermi il Ferragosto.

MA TU COSA VUOI?

Non molto tempo fa un’amica mi ha fatto questa domanda davanti a un panino non particolarmente saporito, durante un pranzo insieme. La domanda della vita, per molti versi. Certo, solo se la prendi sul serio.
Incredibilmente, ho avuto subito chiara la risposta. Dico incredibilmente perché non sapevo di saperlo, cosa volevo.
Bene, invece lo so.
E’ per questo che ora scrivo: per parlare di qualcosa che non credo riuscirò più a fare, almeno per ora. Proprio perché so cosa voglio.
Non riuscirò più a scrivere d’arte. Che è una cosa in cui sono davvero brava.

‘Scrivere d’ arte’, per come ho imparato a farlo io, significa sostanzialmente due cose: parlare di dipinti e sculture, descrivendole e ricorstruendone la storia, e spiegare a chi le guarda come dovrebbe guardarle per capire a cosa servono.
E’ un lavoro che ho fatto per anni – ti impegna parecchio se vuoi farlo bene (come tutti i lavori d’altronde). Perché devi imparare a usare e a mettere insieme linguaggi diversi.
Il primo è la grammatica.
Ho sempre amato giocare con le parole, fin da piccola. Ricordo ancora una sfida tra me e la mia migliore amica su chi sarebbe riuscita a scrivere il racconto più lungo; avrò avuto sì e no 9 anni. Non ricordo chi abbia vinto e sono sicura che il risultato fosse pessimo, ma ricordo ancora il sottile piacere che ho provato – una specie di retrogusto dolce dietro la lingua – nel cercare aggettivi e sinonimi e aggiustare con cura la punteggiatura.
Alle medie scrivevo temi chilometrici che concludevo con ‘FINE’ – serviva più a me che a chi leggeva, ovvio. Inutile dire che la cosa più difficile che ho dovuto imparare insieme alla grammatica è stata questa: concludere. Concludere e sintetizzare.
Per farlo è stato necessario farmi entrare in testa che non serve spiegare ogni volta il mondo intero. Meglio piuttosto iniziare, attraversare, portare a termine un numero preciso e limitato di ragionamenti; ci penseranno altri a continuare, ma solo se sarai riuscita ad argomentare bene.
Soprattutto, ed è forse la cosa più importante, ho imparato che anche se il soggetto è ‘io’, non si scrive mai solo di o per sé stessi. Si parte da sé stessi, si arriva – si deve arrivare – a qualcun’altro. Sempre.
A maggior ragione quando, come nel mio caso, ci si occupa di qualcosa di solo apparentemente immediato e per molti aspetti molto, molto personale.

L’arte è stata, credo, la mia seconda grande scoperta dopo la grammatica. Discorsi interi – racconti, teorie, romanzi, visioni del mondo, filosofie – scritti in una lingua completamente diversa da quelle che già conoscevo: una lingua composta non proprio di parole, un sistema complesso, articolato e solo apparentemente vago, all’interno del quale tutto aveva in realtà una definizione ben precisa, da imparare, elaborare, rispettare.
La prima volta che ho pensato che avrei voluto capire quello che stavo guardando per poi spiegarlo a chi lo guardava dopo di me è stato davanti a un dipinto di un pittore veneziano del XIX secolo, Francesco Hayez: una piccola riproduzione sul libro di storia dell’arte del Liceo, una giovane donna dai capelli neri che mi guardava da sott’insù. Ricordo la corsa dal cartolaio e la fotocopia a colori della pagina: ce l’ho ancora, in un cassetto. Qualche volta la tiro fuori, giusto per ricordarmi l’emozione che ho provato a ritagliarla e a infilarla tra le pagine del diario.
Ecco, imparare a scrivere d’arte ha significato per me imparare a usare quel desiderio e quell’emozione, facendoli diventare utili. Partire da me per arrivare a qualcun’altro.

Pensandoci, mi rendo conto solo ora che quello che in tutti questi anni mi sono esercitata a fare è stato, propriamente, tradurre. Da una parte l’arte, dall’altra l’italiano. E se penso alla ragione che per prima mi ha spinto a scrivere questo post– cercare di concentrarmi su cosa ha significato per me farlo – mi accorgo che è stato esattamente questo passaggio a dare senso a tutto.
Io lo chiamo ‘fare da ponte’.
In quest’ultimo periodo ho scherzato spesso e più o meno seriamente su questa mia propensione a farmi tramite, umanamente come professionalmente. A prescindere da tutto credo sia profondamente vera.
Quando scrivo muovo le mani sulla tastiera con gli occhi rivolti a un’immagine, come se stessi facendo una traduzione simultanea e il dipinto fosse un labiale. Prima racconto la sua storia, spiego da dove viene, chi l’ha realizzato e perché. Poi c’è il momento che per molti versi preferisco: quello in cui lo descrivo. Che poi è il momento in cui cerco le parole, aggiusto la punteggiatura, rifletto sui sinonimi. Con lo stesso retrogusto dolce dietro la lingua che sentivo a 9 anni.
Ogni aggettivo ha un ruolo e un senso precisi; ogni termine viene soppesato con cura. So che è questo il momento più delicato in assoluto: quello in cui potrei finire per cadere dentro me stessa e descrivere me piuttosto che quello che sto guardando. In fondo è la stessa cosa che può succedere – e succede – nella vita, dove i momenti più delicati sono sempre quelli di passaggio da una persona all’altra: una parola poco meno che precisa e la traduzione si perde. Si perde di vista il punto d’arrivo e si continua a girare intorno a quello di partenza.

E qual’è il punto d’arrivo ora, mio e/o di questo post?

Ho iniziato perché volevo scrivere di una cosa che ho amato e che amo ancora fare. Mi sono resa conto scrivendo di quanto sia stata e fondamentalmente rimanga non solo una delle cose che so fare meglio, ma anche e soprattutto una delle cose che meglio definiscono quello che in fondo sono sempre stata: un passaggio, un’interprete e una traduttrice. Un elemento di connessione.
La conclusione è che nonostante tutto vorrei, fortissimamente vorrei continuare a farlo. E continuare ad essere quell’elemento di connessione.
So che questo significa tout court che lo sono e basta. E’ che forse ho bisogno di prendermi cura di questa consapevolezza. Con la tranquillità e il rispetto dovuti.
A me innanzi tutto. E di conseguenza a voi.

(scritto grazie, per e con: Silvia. Non io, l’altra. Si, tu)

MAKE YOUR PEACE (6 Agosto)

Non sono mai stata a Hiroshima, però me la ricordo.
Quella che ho conosciuto io era in un libro per ragazzi dalla copertina arancione che si intitolava ‘Il gran sole di Hiroscima’ (era proprio scritto così: Hiroscima): in primo piano c’era una bambina con le trecce e un cappello di paglia. Dietro di lei il sole.
Adesso so che è un romanzo scritto da Karl Bruchner nel 1961. So che è tratto da una storia vera, so che faccia aveva davvero quella bambina che si chiamava Sadako. So che quel sole che stava alle sue spalle non era solo una metafora della bomba atomica ma anche della bandiera giapponese. So che le è stato dedicato un monumento.
Ora so molte più cose; allora però sapevo l’unica importante: che per me la storia era vera comunque, perché qualcuno me la stava raccontando.
Ho un ricordo vivissimo di quel libro, un ricordo quasi tattile. Più che del racconto, di come mi sono sentita io a leggerlo: il senso di insopportabile calore, la spossatezza, la malinconia. Eppure dovevo essere abbastanza piccola: sette, otto anni al massimo.
Sadako è stata la prima bambina che ho conosciuto il cui nome finiva per -o; la prima con gli occhi e i capelli neri in un immaginario infantile fatto di biondi con gli occhi azzurri. Ricordo soprattutto le sue mani bianche e sottili mentre continuava a piegare e ripiegare gru di origami nel suo letto d’ospedale per mantenere fede alla promessa di arrivare a mille e riuscire a guarire.
Ho tifato per Sadako, pur sapendo che non ci sarebbe riuscita – ero una bambina abbastanza consapevole dei meccanismi narrativi – però avrei voluto lo stesso aiutarla. E ho sofferto per la sua morte come solo possono soffrire i bambini.
Probabilmente è per questo che non non ho mai imparato a fare una gru di origami: se non ero stata capace di aiutare Sadako, beh. A cos’altro poteva servire?

Adesso lo so: a ricordare.
Immaginatevi me, molti anni dopo, in visita al memoriale delle vittime della bomba a Nagasaki. Immaginatemi mentre mi rendo improvvisamente conto di essere circondata di corone e corone intere di gru di carta tutte colorate e mi ricordo tutto in una volta di quel libro, di quella bambina, di quelle gru – le gru di Sadako.
Bam.
Il memoriale di Nagasaki è costruito sotto uno specchio d’acqua corrente – decorato di gru e costellato di bottiglie d’acqua ‘perché le persone colpite dalle radiazioni avevano sempre tanta sete’.
All’interno ci sono solo scaffali pieni di libri pieni di nomi. C’è persino un libro bianco per le vittime che ancora un nome non ce l’hanno.
In mezzo alla stanza c’è un tavolo, sul tavolo un quaderno. Se vuoi puoi lasciare il tuo, di nome (mio dio). Se non te la senti puoi semplicemente restartene seduto quanto vuoi ad ascoltare il rumore dell’acqua, circondato dall’aria e dalla luce che cade dalle finestre, in alto (‘perché le persone colpite dalle radiazioni spesso perdevano la vista a causa della luce troppo forte delle radiazioni’).

Non credo di aver mai più provato in vita mia quello che ho provato lì dentro: la precisa, nitida sensazione di avere un senso e di avere un ruolo: far si che tutto il dolore, tutta la sofferenza di questo mondo potessero davvero servire a qualcosa. Ricordandosene. Ma non con sofferenza: con responsabilità. Perché la memoria non è solo un peso, non è solo senso di sconfitta o frustrazione. No. E’ un valore aggiunto. E’ una ricchezza, un patrimonio.
Perché ricordare è come un viaggio lungo una strada piena di luce, d’acqua e di compagni – tutti quelli che abbiamo perso ma che devono esserci sempre, e ben presenti: non semplicemente mancare.
Ricordare è un dovere, è sacro, e in quanto tale può – no, deve – essere bello.

Certo, è oneroso. Certo, è difficile. Ma la difficoltà si può condividere.
Ecco, in quel memoriale io mi sono sentita parte di in una lunga e colorata catena di gru sospesa su uno specchio d’acqua. Instabile come un rigagnolo, fragile e spigolosa come ali di carta.
Carta e acqua.
Esattamente come immagino sia la materia di cui sono fatti i ricordi.