SOMETHING HAPPENED

E’ successo davvero, è successo qualcosa il giorno in cui David Bowie è morto.
Io per un po’ non ci ho creduto: non che non mi fidassi di internet (non mi fido mai davvero di internet) è che non era possibile, perché David Bowie mica muore, punto.
Prima però ne è successa un’altra, di cosa: tutti, ma proprio tutti, su tutti i social networks, hanno cominciato a parlarne. Tutti piangevano, tutti ricordavano, tutti ascoltavano la sua musica. E io ne sono stata travolta.
Ho pianto, non so nemmeno quanto, non so nemmeno come, con la testa che girava e gli occhi gonfi fino a sera, perché a un certo punto è arrivata pure la sera, e lui era ancora morto.
Negare non potevo; arrabbiarmi, si. Con chi? Boh.
Ora, io mica lo conoscevo, David Bowie, e lui non conosceva me. Però non è troppo dire che mi abbia cresciuto. Ci sono interi dischi che riascoltarli equivale ogni volta a un’autopsia emotiva; canzoni che ancora oggi sono viaggi nel tempo, riffs, intro, finali, persino passaggi da una canzone all’altra che ho talmente interiorizzato da dovermi ogni volta fermare ad ascoltarli con l’attenzione giusta. Ho messo persone nelle sue canzoni, alle quali penso ogni volta che le ascolto. Di più: ci sono persone nei versi, in pezzi di versi, a volte nelle parole. La sua voce suona talmente familiare alle mie orecchie che a volte ancora mi spiazza. C’è stato un tempo che desideravo essere come lui – periodi in cui ci ho persino provato.
Ora che i giorni sono passati ma che la nostalgia invece che diminuire aumenta; ora che è stato detto tutto, il contrario di tutto e di nuovo tutto è stato ripetuto, mi ritrovo ancora a non sapere esattamente come sia cominciata, la nostra storia. Non so quando, non ho nemmeno una canzone precisa.
Però forse, scusatemi, pure se l’avessi non ve la racconterei.
E’ così: il giorno che David Bowie è morto è successo che io mi sono scoperta protettiva. Non sapevo di poterlo essere nei suoi confronti, eppure lo sono, tantissimo. Evidentemente, la parte di me che in qualche modo è cresciuta e si è formata sulle sue radici è molto, molto più grande e importante di quanto credessi. E se ci pensate è bello: ho scoperto, perdendolo, quanto sia ancora con me – quanto lo sarà sempre.
Pochi giorni prima che uscisse il nuovo disco – pochi giorni prima che morisse – ho scritto che avevo finalmente la sensazione che fosse tornato: lo penso ancora, è tornato, e per restare.
E restando, mi ha lasciato il messaggio più bello. Questo ve lo posso svelare, in realtà mica è un segreto, sono versi che stanno nella canzone che chiude il suo ultimo disco:

‘Seing more and feeling less
Saying no, but meaning yes,
This is all I ever meant,
That’s the message that I sent,
I can’t give everything away.

Peekaboo.

IL 20 SETTEMBRE DI KATSUSHIRO (Tifiamo rivolta)

Non sono sicura di essere capace di scrivere una recensione musicale.
D’altra parte non sono nemmeno sicura che questa lo sia. Direi che si prefigura più come un ringraziamento, una di quelle cose che da ascoltatori si sogna sempre di fare quando la musica di qualcuno ha significato tanto. Che è poi precisamente il mio caso.
Perché il disco dei Katsushiro Perso Nel Bosco è arrivato in un momento piuttosto traumatico della mia vita, in contemporanea con un incidente che tra le altre cose mi ha tolto la voglia di musica: per un lungo periodo è stato praticamente l’unica cosa che riuscivo ad ascoltare.
Ricordo ancora la prima volta, un pomeriggio in cui mi sono azzardata ad uscire con il cane: lei che tirava da una parte, io in equilibrio precario dall’altra, l’aria fresca di settembre. Ho infilato le cuffie (se mi conosceste un po’ sapreste che io con le cuffie nelle orecchie praticamente ci vivo), la musica è partita e io ho cominciato a guarire.
Credo che il disco mi sia piaciuto subito perché era costruito sul dialogo tra due elementi contrastanti ma complementari che in quel momento erano anche i miei: forza e debolezza. Mi spiego meglio: la forza era rappresentata dalla musica – densa, matura, avvolgente, piena, ‘adulta’– mentre le voci (due e profondamente diverse tra loro), spesso più grezze e istintive, ne rappresentavano il contraltare debole. E con debole non intendo assolutamente qualcosa di minor valore, sia chiaro, anzi: erano il giusto apporto di imprevedibile ed emotivo. A tenerli insieme, infine, i testi: profondamente impegnati, intensamente interpretati.
Sull’intreccio di questi elementi, che a volte si sostengono, altre si contrastano apertamente, si basano tutte e dieci le canzoni che, se dovessi usare un termine solo, definirei ‘militanti’: una militanza convinta, voluta, nonostante fatica, disillusione, rabbia.
Per amore e per coerenza.
La militanza comincia subito con ‘Tifiamo Rivolta’ e la voce di Massimo Conte (che è anche una delle due chitarre: la seconda è di Cesare Biratoni) che apre liricamente per trasformarsi quasi subito in una vera e propria marcia di musica e voce, unite in un corteo alla fine del quale, dopo un inesorabile crescendo a muso duro, si scatena un vero e proprio tifo. Per la rivolta, appunto. Come se si trattasse di una squadra di calcio; per partito preso, per necessità, perché ‘questi cazzo di anni zero’ nonostante tutto si devono, no, si vogliono salvare.
‘Katsushiro perso nel bosco’ segue quasi senza interruzione, giusto due note sospese di chitarra. La marcia continua, inizia la battaglia: quella musicale tra strumenti e recitato che nel finale finiscono letteralmente per rincorrersi, e quella ben più importante per la ricerca di una definizione di sé stessi nel confronto – esclusivo, inclusivo – con gli altri. Katsushiro ne esce stremato, sì, ma solo apparentemente indifferente.
Segue ‘Lieve’, ed è una pausa – come quando da bambini si chiedeva l’attimo – una delle canzoni più struggenti. Sarà la fisarmonica, sarà la voce solista che cambia (è quella di Leonardo Sala) e si addolcisce: l’effetto è quello di una preghiera. Una preghiera nel nome della leggerezza, perché alleviare non sia sinonimo di oblio bensì di ricordo, memoria, che resti e che dia frutti, foss’anche come traccia radioattiva – a illuminare il mondo.
‘Pratica’, invece, è il primo dei buoni propositi. Infatti avanza ostinata in un crescendo di batteria (a suonarla Giorgio Albani). E’ vero, non abbiamo assaltato il cielo, però possiamo alzarci, attraversare il corridoio, preparare il caffè e continuare a ripeterci che sì, la nostra cosa migliore dovrà per forza essere la prossima.
‘Cf’ torna alla voce di Massimo Conte e racconta un momento di sconforto – anche se passeggero. La corsa infatti riprende quasi subito, nonostante il fiato corto e le poche illusioni. Per ora il ritmo resta lento, quasi seguisse le orbite dei ‘pianeti scagliati dalle mani dei giganti’ – mentre chitarra e batteria preparano la canzone successiva concludendo in un dialogo bellissimo e struggente
Confesso, ‘Il paesaggio di un lunedì qualunque’ la ascolto meno delle altre canzoni– soprattutto, non la ascolto mai di lunedì – ma solo perché è davvero intensa. La prima volta che l’ho fatto ero in treno verso – appunto – Milano: la mia città d’adozione, un pezzo della mia storia, un pezzo del mio cuore. E incredibilmente è tornato indietro tutto: il grigio dei suoi cieli d’autunno, la solitudine eroica delle mie serate da universitaria appollaiata sul balcone o con il naso incollato ai vetri a guardare la pioggia. ‘La santa signora del distanziamento’ – che anche se hai corso più lentamente delle nuvole non è detto che tu abbia perso la gara.
Le due canzoni che seguono le ascolto sempre inevitabilmente insieme, perché credo che siano collegate, anche se in modi che non riesco bene a spiegare.
‘Prometeo su Dresda’ parla dei bombardamenti sulla città ad opera degli anglo-americani del Febbraio del 1945: inutilmente ma tatticamente crudeli, devastanti, mostruosi. E’ un rigurgito di memoria e sdegno, che risveglia ricordi di occhi avidi sulle pagine di Vonnegut e di schifo, schifo, schifo mentre il ritmo incalza (non dimentichiamo Alberto Moscatelli al basso) e prima che tu te ne accorga la canzone è scappata via in un turbinìo di fiati.
‘Chas’ invece è una canzone d’amore. Che parla di quello che non sempre si riesce a tradurre in parole e che si esprime nelle attese, poi negli sguardi, infine negli abbracci. E’ una canzone stupita e che stupisce, che cresce piano e che appena finisce di crescere si zittisce, quasi non volesse disturbare oltre.
Stranamente, ‘Tyssenkrupp’, cantata da Leonardo Sala e dedicata al terribile rogo del dicembre 2007, l’ho sempre percepita come un omaggio, più che come una canzone di denuncia contro le ragioni del profitto, del lavoro privo di tutele, della solitudine dei singoli di fronte alle ragioni economiche. Un omaggio alle vittime, all’umanità in fiamme, all’intensità irripetibile di ogni singola esistenza che per un nulla, per un interesse privato e banale, finisce per bruciare in pochi istanti.
Ecco siamo arrivati alla fine, a ‘Considerazioni sulla crisi contemporanea’, che vede la partecipazione di Giuliano Dottori, produttore del disco.
E’ il secondo e ultimo dei buoni propositi, quello definitivo: la promessa a sé stessi. Che inizia tremando insieme alla voce del pianoforte e continua nel triste bilancio di una maturità non voluta né cercata, ma non certo definitiva.
Perché se ancora si vuole dare spazio al farsi dell’esperienza bisognerà educarsi ad un lento esercizio: di rigore, intransigenza, creazione, miseria. E’ appurato ormai, separare il dolce dall’amaro è impossibile – non esiste purezza, se non quella delle buone intenzioni. Una regola sola rimane: quella di tenere sempre le ginocchia piegate e il baricentro basso, per non perdere il contatto con il terreno.
Ed ‘evitare di cadere a faccia in giù’.

SHE WROTE ‘DEAR MICHAEL’

Mi sono sempre detta che non sarei mai riuscita a scrivere per bene di Michael e me, quindi credo che non ci riuscirò nemmeno questa volta.
Michael è Michael Jackson, giusto per chiarire. E mentre lo scrivo lo ripeto piano, sottovoce, come fosse un mantra o una preghiera: perché l’ho ripetuto talmente tante volte nella vita, ma così tante e in tutte le possibili intonazioni, che mi è difficile riuscire a spiegare quanto mi suoni familiare. Quasi come respirare, ecco, tipo così.
Michael lo conosco da quando avevo 12-13 anni. Mi ero appena fidanzata – una rocambolesca lettera d’amore che mi piacerebbe tanto rileggere, consegnata a mano al ragazzo che mi piaceva sotto i portici davanti alla galleria in centro, a Cremona.Ovviamente, Michael piaceva a lui.
E ovviamente io con lui mi ci sono messa per restarci tutta la vita.
Quindi Michael l’ho ascoltato da innamorata. Prima di lui (biondo, occhi azzurri, accentratore e paraculo – mi sa che ve ne ho già parlato), poi, appunto, di Michael.
Una storia durata infiniti sabati pomeriggio chiusi in stanza con lo stereo acceso a pomiciare, a discutere su quale fosse la canzone migliore, a cercare di buttare giù i testi, ché l’inglese avevo iniziato a studiarlo in prima media. Ancora oggi, quando sono rilassata e non penso troppo, l’accento che sento riecheggiare nella mia voce quando parlo inglese è il suo. Con le ‘s’ un po’ strascicate e gli accenti che cadono dolci – quasi timidi.
Come lui, l’uomo più patologicamente timido che abbia mai visto fare la rockstar. L’uomo pubblico più nascosto del mondo. Il più contraddittorio, il più inquietante, il più indifendibile.
E l’unico, infatti, che io mi sia sentita in dovere di difendere strenuamente, con la forza folle della mia adolescenza innamorata; il primo che io abbia mai ascoltato fino allo sfinimento, fino a memorizzarne ogni minimo accento, gesto, movimento.
Il primo che mi ha fatto conoscere la musica – e non solo la sua – e il ritmo, la solitudine più assoluta, la gioia della condivisione.
Il primo, dunque, ad avermi insegnato tante cose che sono mie ancora oggi.
Ascoltavo Michael e ancora non avevo mai fatto l’amore. Ancora non avevo mai viaggiato veramente, non avevo mai vissuto da sola: ancora non ero veramente niente.
Adesso che non solo quel momento non tornerà più (non fraintendetemi, va benissimo così) e che nemmeno Michael tornerà più, ogni volta che ci penso – come oggi – mi ritrovo a cullarmi in un caldo senso di familiarità che miracolosamente è ancora intatto.
E se mi capita di sentirlo ridere – quella meravigliosa risate cristallina che gli faceva illuminare gli occhi come due fanali – sorrido sempre anch’io. Sempre, sempre, sempre.
Come se ci fosse un segreto tra noi due; un segreto bellissimo, fragile, piccolo piccolo, che però se ne sta lì, sfrontato abbastanza da non permettersi di appassire.

THE REAL THING (vita da parco)

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La prima cosa che ho pensato di volermi ricordare è stato il profumo dell’erba del parco; ho quasi quarant’anni, direi che posso permettermi di essere romantica.
Il profumo dell’erba del parco, dunque, quello che mi ha avvolto nel momento in cui mi sono seduta tra le transenne, davanti all’ingresso, in coda sparsa alle 9 del mattino di sabato 20 Giugno 2015.
Hyde Park, pensa un po’, di nuovo Hyde Park.
Di nuovo i Blur.
Di nuovo noi, a Londra, per un concerto dei Blur.
Questa volta, però, con alcune concessioni. Un ostello, per esempio. La sveglia mattutina non così mattutina. Una bella colazione, chiacchere, una passeggiata rilassata nel verde.
Per arrivare, appunto, al profumo dell’erba.
E nell’erba, intorno, facce note. E’ quello che succede anno dopo anno, quando decidi di andare per l’ennesima volta a un concerto del gruppo che segui da sempre: la mattina presto ci sono sempre le stesse persone. Mi piace, rivedere sempre le stesse persone. La prima fila di un concerto è una sorta di appuntamento fisso, un’occasione per aggiornarsi sulle vite altrui. Come va, che hai fatto recentemente, cose così. Per di più spesso in quella lingua franca che è l’inglese, che quando la usi ti fa sentire lontano e vicino allo stesso momento, mentre cerchi di adattare l’orecchio agli accenti più vari e lasci che il tempo passi.
Perché ha una strana qualità il tempo mentre aspetti lì, prima che aprano i cancelli, poi che cominci un concerto e tu, semplicemente, devi occupare un posto – in coda prima, davanti alla transenna poi. Per il resto devi solo correre più veloce degli altri, calcolare le soste al bagno – che da un certo momento in poi non puoi fare più – e avere con te scorte sufficienti di cibo. Poco altro. Per esempio sabato scorso era importante avere qualcosa per proteggersi dall’acqua e dal freddo; è stato in mio primo concerto bagnato, ma anche la mia prima giornata passata quasi completamente in piedi, per questione di sicurezza. E la folla dietro ha cominciato a spingere e smaniare molto presto. E io non ero in perfette condizioni fisiche, perché reduce da un’operazione alla spalla alla quale sono stata sottoposta meno di un mese fa.
Sono tutte cose che contano e contano molto in quel microcosmo strano che è la prima fila di un concerto, sopratttutto se calcoli che da un certo momento in poi non potrai più muoverti come vorrai. Che sarà difficile girarti, allacciarti una scarpa, a volte persino grattarti il naso o sollevare il telefono per fare una foto, anche perché se piove potrebbe scivolarti e cadere mentre tu non sei propriamente padrona nemmeno dello spazio ai tuoi piedi.
E dunque, perché?
Confesso, non sono sicura di saper rispondere.
Il fatto è che per me vissuto così un concerto appartiene non solo alla categoria dell’udito, ma anche a quella della vista. Perché a me piace da impazzire osservare quello che succede sul palco, godermi quell’atmosfera tecnica e professionale che regna ovunque: il dietro le quinte che ti avviene lì, sotto il naso; i gesti, i movimenti, gli sguardi d’intesa; gli errori, le corse per rimediare. Così come mi piacciono gli scambi di battute con gli uomini della sicurezza, che ti chiedono se va tutto bene con un’occhiata indagatrice o si portano indice e pollice alla bocca per sapere se hai bisogno di bere.
Quella che vivi dalla prima fila è una musica piena di cose.
E tra tutte queste cose i musicisti suonano.
Ed è ovvio che è bello, davvero bello cantare insieme a loro – guardarli che ti guardano, anche se sai che è difficile che ti vedano per davvero, per il semplice motivo che loro sono pochi, noi siamo tanti.
Una volta un amico mi ha stupito dicendomi di non amare i concerti dal vivo in quanto occasioni per nutrire gli ego: il proprio e quello di chi sta sul palco. Ci ho pensato tantissimo e sono arrivata alla conclusione che è vero, assolutamente vero. E anche se a me, a conti fatti, non importa poi un granchè di essere riconosciuta, mi importa molto, questo sì, di nutrire l’ego altrui. Diciamo che è il mio modo di ringraziare per la musica, le emozioni, quelle cose lì che sapete bene.
Ché tanto le persone che hai davanti non sono le stesse che pensi di conoscere – non sono proprio proprio le stesse che ti suonano e cantano nelle cuffie quando stai passando una bella giornata (o una brutta), che ti cambiano l’umore, che ti esaltano, che semplicemente danno ritmo al tuo passo quando cammini (io cammino a tempo con la musica nelle orecchie, anche voi, no?).
E poi, non ultimo, c’è questo fatto che a un concerto si è tutti insieme, e che tutti insieme ci si agita e si canta. Stonando da morire, dondolando la testa, alzando le mani. Si urla, si ride, ci si commuove. Si piange persino. E si fa amicizia con le persone accanto. Che se poi sei fortunata ti rimangono amiche e ci vai insieme ad altri concerti (è successo a me, sono stata molto fortunata).

Quello che pensi, quello che provi quando ti ritrovi immersa in quella musica lì, quella che ascolti a casa e che sul disco è sempre uguale e che invece suonata live è farcita di variazioni, modifiche, movimenti, sguardi, sorrisi che non puoi certo prevedere, quello beh, è materiale per quel romanticismo di cui parlavo all’inizio, quello che parte dal profumo dell’erba.
Io però per pudore quello me lo tengo per me.
Perché come dicevo, ho quasi quarant’anni: posso permettermi anche questo.

‘RICORDATI CHE TU HAI LA GRU’

IMG_20150530_064223Questo è un post dedicato alla convalescenza.
Che non è solo lo stato fisico in cui mi trovo ora, con un braccio al collo, il divano e un libro tra le mani, ma anche, e oserei dire soprattutto, quello stato mentale che per la prima volta dopo tanti anni – o forse per la prima volta tout-court? – mi rende capace di rallentare, o perfino di fermarmi, senza tutto quel timore ansioso di perdermi qualche cosa, qualsiasi cosa.
Non so bene perché, ma io le cose le ho sempre rincorse.
Le persone, poi, ho sempre avuto l’impressione di doverle conquistare.
Come se dovessi sempre e comunque dimostrare qualcosa, ma qualcosa di assolutamente identitario, importante, definitivo.
Ogni. Fottutissima.volta.
Se ripenso a un anno fa di questi giorni mi rendo conto di quanto fossi diventata paradossale – la trottola che ero e che sono sempre stata girava talmente, disperatamente a vuoto che sul serio, adesso non riesco nemmeno a sopportare l’idea di quanta energia io sprecassi ogni giorno.
Giorni e giorni di ‘nonostante’, vissuti sul filo di dettagliatissimi ragionamenti a vuoto che finivano regolarmente per lasciarmi a serate esauste, piene di domande sbagliate che presupponevano un’unica risposta – quella che ovviamente nessuno mi avrebbe dato.
Ora non è più importante capire perché – non è più importante darsi una spiegazione per tutto. Davvero, le cose sono come sono e vanno come devono andare.
Solo, vorrei essere stata più attenta. Più rispettosa, più affettuosa, perché è vero che se le azioni e le parole passano, resta il come le persone ti hanno fatto sentire ed io so di non averne fatte sentire bene un bel po’ (me stessa per prima, ma non serve granché dirlo).
Non sono una persona facile, ed è forse la prima volta che lo dico senza quel sottile senso di compiacimento adolescenziale di chi da sempre desidera con tutta sé stessa di essere unica e speciale.
Niente di più, niente di meno: sono unica e speciale, come tutti. Continue reading

WHEN GRAHAM SMILES

when graham smiles
La mia prima transenna è stata a un concerto dei Blur a Milano nel 1995.
O almeno credo fosse il 1995, dal momento che non ricordo dove ho messo il biglietto, né se l’ho mai conservato.
E comunque non era una transenna, perché il posto era piccolo e sotto il palco eravamo quattro gatti.
Io avevo i capelli più lunghi, gli occhiali con la montatura di plastica a finta tartaruga e mi ero appena immatricolata all’Università Statale di Milano. Condividevo una stanza in un appartamento a Corvetto con altre tre ragazze – un letto, una scrivania, mezzo armadio e vista sui palazzoni della periferia milanese. Il paradiso, nè più nè meno.
Ero ancora innamorata del mio primo ragazzo, o almeno così credevo, perché mi stavo prendendo una cotta colossale per il suo migliore amico, che secondo me somigliava terribilmente proprio al chitarrista dei Blur.
Non aveva gli occhiali da nerd, ma come lui era timido, introverso e tormentato.
L’avevo conosciuto in montagna, durante una vacanza estiva alla quale era stato invitato anche lui: sapevamo della reciproca esistenza ma non ci eravamo mai parlati – e in realtà non ci parlammo nemmeno allora: lui più che altro fumava silenzioso vicino alla finestra della mansarda dove dormivamo – ricordo che trovavo incredibilmente carino che non volesse disturbarmi con il fumo della sigaretta (cosa che vi da l’idea di quanto poco all’epoca mi aspettassi in termini di gentilezza dall’universo maschile).
Graham Coxon è entrato così nella mia vita: una specie di scelta di campo tra il mio ex – fate conto che lo identificassi con Damon Albarn, il creativo, il leader, il paraculo, per intenderci – e il suo cupo, enigmatico amico del cuore dagli occhi scuri e dallo sguardo sempre sfuggente, anche quando si riusciva a farlo sorridere.
Quel concerto me lo ricordo per almeno quattro ragioni: la prima è che saltarono più volte le luci, tanto che Damon si sentì in dovere di chiedere scusa: «we’re better than that, believe me». La seconda è che ad un certo punto qualcuno – non mi ricordo più che canzone fosse – si mise a fare le bolle di sapone. La quarta – alla terza ci arrivo poi – è che lui, il migliore amico del mio ex, prese al volo una delle bacchette lanciate dal batterista e me la regalò. Ce l’ho ancora – potete immaginarvi quanto ci abbia fantasticato, su quel gesto.
Ma torniamo alla terza cosa.
Io ero a sinistra del palco, sotto Graham (fa ridere lo so); la maggior parte del pubblico femminile era sulla destra e pendeva dalle labbra di Damon.
Capite bene quanto personale fosse quella scelta di campo.
Non ricordo bene cosa stessi facendo, ricordo che non osavo distogliere lo sguardo – so essere parecchio ossessiva quando voglio.
A un certo punto Graham ha abbassato gli occhi e deve avermi proprio visto, perché è scoppiato a ridere.
Adesso la conosco bene quella risata, gliel’ho vista fare spesso e la adoro; quella sera, ecco, mi ha preso alla sprovvista. Però era per me, e tanto bastava: Graham Coxon mi aveva visto. Sapeva della mia esistenza, o almeno ne aveva saputo giusto per qualche secondo. E la mia esistenza lì, in quell’instante, lo aveva fatto ridere (la storia della mia vita da quel momento in poi, mi verrebbe da dire).

Il migliore amico del mio ex e io ci siamo messi insieme qualche anno dopo e siamo rimasti insieme 10 anni – una vita.
Il poster di quel concerto lo ha staccato lui dalla parete del locale. Ce l’ho io, non so perché. E’ strappato qua e là, porta ancora i segni del nastro adesivo nero, ha gli angoli smangiati dal tempo che ha passato sulle pareti delle mie varie stanze da universitaria. Mi riprometto sempre di incorniciarlo e di riappenderlo da qualche parte, prima o poi lo farò. Io e lui invece non ci sentiamo più da tempo – la storia è finita male, chissà se ci reincontreremo mai.
Con Graham Coxon invece ci siamo visti ancora.
Era una sera d’agosto del 2012 ad Hyde Park, Londra. Lui aveva una maglietta di The Abyss, io avevo preso un aereo, un treno e la metro per arrivare fino alla transenna. Ero con il mio migliore amico, avevo appena finito di dirgli che ero stanchissima, che non sapevo se sarei stata in grado di reggere il concerto dopo tutte quelle ore di attesa.
Poi all’improvviso le luci si sono spente, il sipario si è aperto e io ho visto lui, solo lui, con la chitarra in mano.
«Ehi, Graham», mi sono detta.
E lui ha sorriso.

IL PAPA’ DI FRANCES BEAN

Ho appena visto ‘Montage of Heck’, il film realizzato in memoria di Kurt Cobain.
Sono state due ore intense, piene di una strana tensione e di quella che a posteriori potrei solo definire come inquietudine adolescenziale.
Avevo 16 anni nel 1991, l’anno in cui ‘Nevermind’ è uscito, e ho pochi ricordi: quella dei Nirvana non era il tipo di musica che ascoltavo, di lì a poco sarebbero arrivati i Blur e per me molte cose avrebbero preso una piega diversa.
Inghilterra invece che America, per intenderci.
Non sono mai stata il tipo di persona che ascoltava le cose nuove per essere aggiornata su quello che stava succedendo; nella musica ci sono sempre rimasta incagliata quasi per caso, spesso a causa delle persone che amavo, che volevo che mi amassero, dalle quali mi lasciavo guidare. Cose così, sapete come funziona.
Dico questo per spiegare quali fossero le mie aspettative mentre mi accoccolavo sul divano di un’amica ieri sera dopo un paio di bicchieri di vino: pensavo che avrei visto qualcosa che mi spiegasse meglio chi era e cosa aveva fatto Kurt Cobain con la sua musica. Un documentario, insomma.
Invece ho visto qualcosa di completamente diverso.
In ‘Montage of Heck’ non viene fatta nessuna ricostruzione della storia dei Nirvana. Non ci sono quasi nemmeno le date, la scansione dei momenti topici, i nomi, le storie. Niente di tutto questo: io oggi dei Nirvana so esattamente quello che sapevo già, in termini di storia musicale.
Quindi?
Confesso che sono rimasta parecchio confusa per quasi metà del film. Confusa e a tratti sconvolta, perché stavo guardando il racconto personalissimo della vita intima di un uomo che solo a tratti prendeva le caratteristiche di un documentario ufficiale sui Nirvana, quando per esempio nel fluire di pezzi di animazione tratti dai disegni e dai diari di Kurt Cobain si inserivano le interviste ai genitori, a Krist Novoselic (Dave Grohl non ha voluto partecipare), alla prima fidanzata: quel tipo di scene, cioè, filmate in un adesso pulito e luminoso, dove le parole sono piene della saggezza dei sopravvissuti. Interrotte però, quasi a riaprire un’antica ferita, da filmati bellissimi e strazianti tratti dalla privatissima storia di un bambino biondo e iperattivo prima, di un adolescente disperato poi, infine di un musicista eroinomane che si fa riprendere dalla moglie incinta, mentre sono entrambi strafatti.
Ho detto che sono rimasta confusa fino a a metà del film: cioè più o meno quando entra in scena lei: Frances Bean, la figlia di Kurt Cobain e Courtney Love.
E’ stato in quel momento che ho cominciato a capire quale davvero fosse il significato del film: esattamente quando la mia amica mi ha rassicurato che Frances Bean Cobain ne è il produttore esecutivo.
‘Montage of Heck’ è un film sul papà di Frances Bean.
E’ il lungo, commovente racconto che una giovane donna – Frances oggi ha quasi l’età che aveva sui padre quando è morto – fa di suo padre.
Ecco perché tanta storia personale, senza altra spiegazione se non i diari, i disegni, la voce.
Ecco perché tutte quelle riprese dannatamente private, davanti alle quali a volte vorresti chiudere gli occhi per pudore.
Ecco perché tanto straziante romanticismo e tenerezza nel ricostruire la vita di un ragazzo pieno di disperazione e desiderio di famiglia (una delle cose che si sentono ripetere di più).
Perché non sempre è figo essere la figlia di una superstar bella e dannata che si è sparata in faccia a ventisette anni. E ancora di più non è sempre figo essere figlia di una madre più e più volte devastata dalla droga, dalla violenza, dalla chirurgia plastica.
E perché dai, non è sempre figo chiamarsi Frances ‘fagiolo’.
E’ la tua vita, punto. E cerchi di farne quello che puoi, quando hai avuto tuo padre – la parte che perdi e che non hai se vuoi sopravvivere la rendi più bella che puoi – solo per un paio d’anni.
Ecco, per me il senso di questo film è tutto nei filmati di Kurt, Courtney e Frances Bean insieme: il primo compleanno, il primo taglio di capelli – devastante vedere questa inconsapevole bimbetta tutta occhi e faccia buffa tra le braccia di due strafatti genitori che impugnano le forbici – il bagnetto in cui Coutney dice a lui «sono felice» e lui risponde «anch’io» e tu già sai come andrà a finire.
Basta guardare il finale: un bellissimo (ma dio santo quanto era totalmente bello Kurt Cobain?), dolcissimo e ormai stanchissimo Kurt che canta ‘Where did you sleep last night’ unplugged a MTV.
Basta andarsi a cercare – se non lo sapete già – che cos’è, nella discografia dei Nirvana, ‘Montage of Heck’.
Anzi, in fondo basta solo riflettere un attimo su che cosa significa, ‘Montage of Heck’.

«RIFACCIAMO?»

A volte ripenso a quello che è successo un pomeriggio d’inverno di tanti anni fa tra me e il bambino capriccioso a cui facevo da baby sitter: non voleva andare a prendere la sorella a scuola e puntava i piedi, in mezzo alla strada.
Era come una gara di tiro alla fune, solo che non ci sarebbe stato nessun premio, dopo, bensì musi lunghi e lacrime e chissà quale altra stortura.
Eravamo arrivati a un bivio: in un modo o nell’altro, lui cercava la sberla. Otto anni di testartaggine piuttosto disperata, di quelle – ma questo l’ho capito dopo – che rivendicano attenzioni negate, ma non certo da me e non certo in quel momento.
Insomma, la situazione era diventata imbarazzante. «Vieni», «No», il tutto sul marciapiede, sotto gli occhi dei passanti.
All’improvviso un’intuizione. Mi dico: «lascia stare». Lascia stare il tiro alla fune, la richiesta, il tono di voce perentorio.
Mi fermo.
Lui mi guarda, stupito.
«Senti, davvero. Non sei stufo di litigare? Perché io lo sono. Non mi piace litigare con te». Rimane zitto per un attimo e poi risponde, gli occhi lucidi e le guance rosse (era proprio un bel bambino, biondo e in fondo molto timido). «Si. Non piace nemmeno a me».
«Smettiamo?»
«Ok. Smettiamo».
E così abbiamo smesso.
Ci siamo guardati in silenzio ancora per un po’, ricordo che ho ricominciato a sentire freddo alla punta del naso.
«Edo – si chiamava Edoardo – che facciamo, andiamo a prendere tua sorella?»
«Andiamo».
Non so cosa esattamente sia stato che ha cambiato tutto. So che al momento mi sono sentita sollevata soprattutto per aver evitato di dargli quella sberla: credetemi, la stava davvero cercando.
Forse è stato il fatto di aver mostrato i miei sentimenti, semplicemente e senza doppi fini: era vero che non mi stava piacendo litigare, era vero che ero stanca.
Non so.
Quello che so è che mi capita spesso di pensarci, a Edoardo, quando mi ritrovo in situazioni apparentemente senza via d’uscita. Penso: «Basta, dai. Davvero. Smettiamo». Magari mi illudo, di sicuro mi illudo, ma mi piacerebbe semplicemente poter dire così.

«Senti, aspetta, ferma un attimo. Rifacciamo»?

FULVIO, 1996

Fuori la notte scivola veloce mentre l’ automobile si muove rapida nel buio intermittente dell’ autostrada. Una striscia bianca l’ asfalto, lo sguardo che si sposta dal volante al cielo.
Seduto rigido, la schieda dritta, le nocche delle dita bianche per lo sforzo di concentrazione, lui pensa. Potrebbe durare in eterno questo viaggio. Si potrebbe restarci seduti mesi, anni, su questo sedile, gli occhi fissi sulla strada, questa linea retta che continua all’infinito attraverso l’anonimo, piatto paesaggio. In realtà si potrebbe persino smettere, di pensare, ché tanto bastano le mani sul volante, gli occhi che a tratti si stringono impercettibilmente, le spalle che cambiano appena posizione.
Esiste un momento, un preciso, chiaro momento, in qualsiasi cosa si faccia, che la gela di eternità. Un’ eternità modesta, per euforica o disperata che sia, un’ eternità di attimi sempre uguali.
La strada, la macchina, il corpo pietrificato dalla concentrazione. Una piccola eternità che passa attraverso fanali che lampeggiano, insegne che si perdono, luci gialle che insistenti bruciano l’ attenzione per poi scomparire.
E la sensazione che fuori la notte, fondendosi col metallo, penetri lentamente nella macchina per impadronirsi silenziosa del volante.
Poi arrivi dove stavi andando.

(Silvia rilegge e corregge Silvia, di nuovo. Fuori il sole di marzo, qui un raffreddore in arrivo).

DI PRIMI BACI, 2009

E’ sera. Il locale ha le luci basse, le sedie di legno e il menu scritto a gessetto bianco su una lavagnetta fuori dalla porta. Lui l’ha aspettata all’angolo della strada, lei si è emozionata a sentire il suono della sua voce.
Ora lo guarda attraverso i riflessi del vino rosso, nel bicchiere prima, in corpo poi. Parlano, quel modo di parlare di sè come se si fosse altro, quasi giocando a nascondino, chè fino all’ultimo non si sa cosa succederà.
Poi succede – la cena è finita, le parole pure. Anche il locale è alle spalle, e il bacio arriva all’improvviso. E’ uno di quei baci di quando fuori è già un po’ primavera  ma l’aria è ancora fredda. Le labbra, invece, sono calde: del vino, del locale, delle parole dette fino a poco tempo prima. Arriva alla conclusione di un movimento del braccio di lui che la avvicina dolcemente a sè, fino a superare lo spazio che ancora rimane tra le punte fredde dei due nasi, l’impaccio delle sciarpe e quella timidezza lì che ride, ride e ancora cerca di fare resistenza (o è una posa?).
E’ un bacio bello, di quella bellezza che hanno tutti i primi baci quando sono l’attraversamento di una soglia: quel momento magico in cui si ottiene il permesso di accedere l’uno all’altro e si comincia ad esplorarsi, a cominciare dalle mani, che si cercano come se dovessero darsi conferma di esistere ancora.
Tutto intorno sembra che adesso sia il mondo a ridere, sempre più forte, mentre il buio nasconde l’emozione (arrossire per un bacio? Si, arrossire per quel bacio) e qualcosa comincia.

(Silvia rilegge e corregge Silvia. E’ giovedì, c’è il sole e tira vento. Lo stereo è incredibilmente spento).