‘RICORDATI CHE TU HAI LA GRU’

IMG_20150530_064223Questo è un post dedicato alla convalescenza.
Che non è solo lo stato fisico in cui mi trovo ora, con un braccio al collo, il divano e un libro tra le mani, ma anche, e oserei dire soprattutto, quello stato mentale che per la prima volta dopo tanti anni – o forse per la prima volta tout-court? – mi rende capace di rallentare, o perfino di fermarmi, senza tutto quel timore ansioso di perdermi qualche cosa, qualsiasi cosa.
Non so bene perché, ma io le cose le ho sempre rincorse.
Le persone, poi, ho sempre avuto l’impressione di doverle conquistare.
Come se dovessi sempre e comunque dimostrare qualcosa, ma qualcosa di assolutamente identitario, importante, definitivo.
Ogni. Fottutissima.volta.
Se ripenso a un anno fa di questi giorni mi rendo conto di quanto fossi diventata paradossale – la trottola che ero e che sono sempre stata girava talmente, disperatamente a vuoto che sul serio, adesso non riesco nemmeno a sopportare l’idea di quanta energia io sprecassi ogni giorno.
Giorni e giorni di ‘nonostante’, vissuti sul filo di dettagliatissimi ragionamenti a vuoto che finivano regolarmente per lasciarmi a serate esauste, piene di domande sbagliate che presupponevano un’unica risposta – quella che ovviamente nessuno mi avrebbe dato.
Ora non è più importante capire perché – non è più importante darsi una spiegazione per tutto. Davvero, le cose sono come sono e vanno come devono andare.
Solo, vorrei essere stata più attenta. Più rispettosa, più affettuosa, perché è vero che se le azioni e le parole passano, resta il come le persone ti hanno fatto sentire ed io so di non averne fatte sentire bene un bel po’ (me stessa per prima, ma non serve granché dirlo).
Non sono una persona facile, ed è forse la prima volta che lo dico senza quel sottile senso di compiacimento adolescenziale di chi da sempre desidera con tutta sé stessa di essere unica e speciale.
Niente di più, niente di meno: sono unica e speciale, come tutti. Continue reading

WHEN GRAHAM SMILES

when graham smiles
La mia prima transenna è stata a un concerto dei Blur a Milano nel 1995.
O almeno credo fosse il 1995, dal momento che non ricordo dove ho messo il biglietto, né se l’ho mai conservato.
E comunque non era una transenna, perché il posto era piccolo e sotto il palco eravamo quattro gatti.
Io avevo i capelli più lunghi, gli occhiali con la montatura di plastica a finta tartaruga e mi ero appena immatricolata all’Università Statale di Milano. Condividevo una stanza in un appartamento a Corvetto con altre tre ragazze – un letto, una scrivania, mezzo armadio e vista sui palazzoni della periferia milanese. Il paradiso, nè più nè meno.
Ero ancora innamorata del mio primo ragazzo, o almeno così credevo, perché mi stavo prendendo una cotta colossale per il suo migliore amico, che secondo me somigliava terribilmente proprio al chitarrista dei Blur.
Non aveva gli occhiali da nerd, ma come lui era timido, introverso e tormentato.
L’avevo conosciuto in montagna, durante una vacanza estiva alla quale era stato invitato anche lui: sapevamo della reciproca esistenza ma non ci eravamo mai parlati – e in realtà non ci parlammo nemmeno allora: lui più che altro fumava silenzioso vicino alla finestra della mansarda dove dormivamo – ricordo che trovavo incredibilmente carino che non volesse disturbarmi con il fumo della sigaretta (cosa che vi da l’idea di quanto poco all’epoca mi aspettassi in termini di gentilezza dall’universo maschile).
Graham Coxon è entrato così nella mia vita: una specie di scelta di campo tra il mio ex – fate conto che lo identificassi con Damon Albarn, il creativo, il leader, il paraculo, per intenderci – e il suo cupo, enigmatico amico del cuore dagli occhi scuri e dallo sguardo sempre sfuggente, anche quando si riusciva a farlo sorridere.
Quel concerto me lo ricordo per almeno quattro ragioni: la prima è che saltarono più volte le luci, tanto che Damon si sentì in dovere di chiedere scusa: «we’re better than that, believe me». La seconda è che ad un certo punto qualcuno – non mi ricordo più che canzone fosse – si mise a fare le bolle di sapone. La quarta – alla terza ci arrivo poi – è che lui, il migliore amico del mio ex, prese al volo una delle bacchette lanciate dal batterista e me la regalò. Ce l’ho ancora – potete immaginarvi quanto ci abbia fantasticato, su quel gesto.
Ma torniamo alla terza cosa.
Io ero a sinistra del palco, sotto Graham (fa ridere lo so); la maggior parte del pubblico femminile era sulla destra e pendeva dalle labbra di Damon.
Capite bene quanto personale fosse quella scelta di campo.
Non ricordo bene cosa stessi facendo, ricordo che non osavo distogliere lo sguardo – so essere parecchio ossessiva quando voglio.
A un certo punto Graham ha abbassato gli occhi e deve avermi proprio visto, perché è scoppiato a ridere.
Adesso la conosco bene quella risata, gliel’ho vista fare spesso e la adoro; quella sera, ecco, mi ha preso alla sprovvista. Però era per me, e tanto bastava: Graham Coxon mi aveva visto. Sapeva della mia esistenza, o almeno ne aveva saputo giusto per qualche secondo. E la mia esistenza lì, in quell’instante, lo aveva fatto ridere (la storia della mia vita da quel momento in poi, mi verrebbe da dire).

Il migliore amico del mio ex e io ci siamo messi insieme qualche anno dopo e siamo rimasti insieme 10 anni – una vita.
Il poster di quel concerto lo ha staccato lui dalla parete del locale. Ce l’ho io, non so perché. E’ strappato qua e là, porta ancora i segni del nastro adesivo nero, ha gli angoli smangiati dal tempo che ha passato sulle pareti delle mie varie stanze da universitaria. Mi riprometto sempre di incorniciarlo e di riappenderlo da qualche parte, prima o poi lo farò. Io e lui invece non ci sentiamo più da tempo – la storia è finita male, chissà se ci reincontreremo mai.
Con Graham Coxon invece ci siamo visti ancora.
Era una sera d’agosto del 2012 ad Hyde Park, Londra. Lui aveva una maglietta di The Abyss, io avevo preso un aereo, un treno e la metro per arrivare fino alla transenna. Ero con il mio migliore amico, avevo appena finito di dirgli che ero stanchissima, che non sapevo se sarei stata in grado di reggere il concerto dopo tutte quelle ore di attesa.
Poi all’improvviso le luci si sono spente, il sipario si è aperto e io ho visto lui, solo lui, con la chitarra in mano.
«Ehi, Graham», mi sono detta.
E lui ha sorriso.

IL PAPA’ DI FRANCES BEAN

Ho appena visto ‘Montage of Heck’, il film realizzato in memoria di Kurt Cobain.
Sono state due ore intense, piene di una strana tensione e di quella che a posteriori potrei solo definire come inquietudine adolescenziale.
Avevo 16 anni nel 1991, l’anno in cui ‘Nevermind’ è uscito, e ho pochi ricordi: quella dei Nirvana non era il tipo di musica che ascoltavo, di lì a poco sarebbero arrivati i Blur e per me molte cose avrebbero preso una piega diversa.
Inghilterra invece che America, per intenderci.
Non sono mai stata il tipo di persona che ascoltava le cose nuove per essere aggiornata su quello che stava succedendo; nella musica ci sono sempre rimasta incagliata quasi per caso, spesso a causa delle persone che amavo, che volevo che mi amassero, dalle quali mi lasciavo guidare. Cose così, sapete come funziona.
Dico questo per spiegare quali fossero le mie aspettative mentre mi accoccolavo sul divano di un’amica ieri sera dopo un paio di bicchieri di vino: pensavo che avrei visto qualcosa che mi spiegasse meglio chi era e cosa aveva fatto Kurt Cobain con la sua musica. Un documentario, insomma.
Invece ho visto qualcosa di completamente diverso.
In ‘Montage of Heck’ non viene fatta nessuna ricostruzione della storia dei Nirvana. Non ci sono quasi nemmeno le date, la scansione dei momenti topici, i nomi, le storie. Niente di tutto questo: io oggi dei Nirvana so esattamente quello che sapevo già, in termini di storia musicale.
Quindi?
Confesso che sono rimasta parecchio confusa per quasi metà del film. Confusa e a tratti sconvolta, perché stavo guardando il racconto personalissimo della vita intima di un uomo che solo a tratti prendeva le caratteristiche di un documentario ufficiale sui Nirvana, quando per esempio nel fluire di pezzi di animazione tratti dai disegni e dai diari di Kurt Cobain si inserivano le interviste ai genitori, a Krist Novoselic (Dave Grohl non ha voluto partecipare), alla prima fidanzata: quel tipo di scene, cioè, filmate in un adesso pulito e luminoso, dove le parole sono piene della saggezza dei sopravvissuti. Interrotte però, quasi a riaprire un’antica ferita, da filmati bellissimi e strazianti tratti dalla privatissima storia di un bambino biondo e iperattivo prima, di un adolescente disperato poi, infine di un musicista eroinomane che si fa riprendere dalla moglie incinta, mentre sono entrambi strafatti.
Ho detto che sono rimasta confusa fino a a metà del film: cioè più o meno quando entra in scena lei: Frances Bean, la figlia di Kurt Cobain e Courtney Love.
E’ stato in quel momento che ho cominciato a capire quale davvero fosse il significato del film: esattamente quando la mia amica mi ha rassicurato che Frances Bean Cobain ne è il produttore esecutivo.
‘Montage of Heck’ è un film sul papà di Frances Bean.
E’ il lungo, commovente racconto che una giovane donna – Frances oggi ha quasi l’età che aveva sui padre quando è morto – fa di suo padre.
Ecco perché tanta storia personale, senza altra spiegazione se non i diari, i disegni, la voce.
Ecco perché tutte quelle riprese dannatamente private, davanti alle quali a volte vorresti chiudere gli occhi per pudore.
Ecco perché tanto straziante romanticismo e tenerezza nel ricostruire la vita di un ragazzo pieno di disperazione e desiderio di famiglia (una delle cose che si sentono ripetere di più).
Perché non sempre è figo essere la figlia di una superstar bella e dannata che si è sparata in faccia a ventisette anni. E ancora di più non è sempre figo essere figlia di una madre più e più volte devastata dalla droga, dalla violenza, dalla chirurgia plastica.
E perché dai, non è sempre figo chiamarsi Frances ‘fagiolo’.
E’ la tua vita, punto. E cerchi di farne quello che puoi, quando hai avuto tuo padre – la parte che perdi e che non hai se vuoi sopravvivere la rendi più bella che puoi – solo per un paio d’anni.
Ecco, per me il senso di questo film è tutto nei filmati di Kurt, Courtney e Frances Bean insieme: il primo compleanno, il primo taglio di capelli – devastante vedere questa inconsapevole bimbetta tutta occhi e faccia buffa tra le braccia di due strafatti genitori che impugnano le forbici – il bagnetto in cui Coutney dice a lui «sono felice» e lui risponde «anch’io» e tu già sai come andrà a finire.
Basta guardare il finale: un bellissimo (ma dio santo quanto era totalmente bello Kurt Cobain?), dolcissimo e ormai stanchissimo Kurt che canta ‘Where did you sleep last night’ unplugged a MTV.
Basta andarsi a cercare – se non lo sapete già – che cos’è, nella discografia dei Nirvana, ‘Montage of Heck’.
Anzi, in fondo basta solo riflettere un attimo su che cosa significa, ‘Montage of Heck’.

«RIFACCIAMO?»

A volte ripenso a quello che è successo un pomeriggio d’inverno di tanti anni fa tra me e il bambino capriccioso a cui facevo da baby sitter: non voleva andare a prendere la sorella a scuola e puntava i piedi, in mezzo alla strada.
Era come una gara di tiro alla fune, solo che non ci sarebbe stato nessun premio, dopo, bensì musi lunghi e lacrime e chissà quale altra stortura.
Eravamo arrivati a un bivio: in un modo o nell’altro, lui cercava la sberla. Otto anni di testartaggine piuttosto disperata, di quelle – ma questo l’ho capito dopo – che rivendicano attenzioni negate, ma non certo da me e non certo in quel momento.
Insomma, la situazione era diventata imbarazzante. «Vieni», «No», il tutto sul marciapiede, sotto gli occhi dei passanti.
All’improvviso un’intuizione. Mi dico: «lascia stare». Lascia stare il tiro alla fune, la richiesta, il tono di voce perentorio.
Mi fermo.
Lui mi guarda, stupito.
«Senti, davvero. Non sei stufo di litigare? Perché io lo sono. Non mi piace litigare con te». Rimane zitto per un attimo e poi risponde, gli occhi lucidi e le guance rosse (era proprio un bel bambino, biondo e in fondo molto timido). «Si. Non piace nemmeno a me».
«Smettiamo?»
«Ok. Smettiamo».
E così abbiamo smesso.
Ci siamo guardati in silenzio ancora per un po’, ricordo che ho ricominciato a sentire freddo alla punta del naso.
«Edo – si chiamava Edoardo – che facciamo, andiamo a prendere tua sorella?»
«Andiamo».
Non so cosa esattamente sia stato che ha cambiato tutto. So che al momento mi sono sentita sollevata soprattutto per aver evitato di dargli quella sberla: credetemi, la stava davvero cercando.
Forse è stato il fatto di aver mostrato i miei sentimenti, semplicemente e senza doppi fini: era vero che non mi stava piacendo litigare, era vero che ero stanca.
Non so.
Quello che so è che mi capita spesso di pensarci, a Edoardo, quando mi ritrovo in situazioni apparentemente senza via d’uscita. Penso: «Basta, dai. Davvero. Smettiamo». Magari mi illudo, di sicuro mi illudo, ma mi piacerebbe semplicemente poter dire così.

«Senti, aspetta, ferma un attimo. Rifacciamo»?