TAKE YOUR TIME (File under: la mia prima volta con Kurt Vile. A caso, tra l’altro)

Fin quando riesco a ricordare c’è sempre stata la linea del tempo degli altri ben chiara davanti – lontano – da me. Un vero e proprio orizzonte che se ne stava sempre lì, dritto, pulito, silenziosamente compatto e distante. O forse non era l’orizzonte ad essere silenzioso e distante, ero io ad essere insonorizzata. Insonorizzata e chiusa nel ritmo di una musica interiore che non seguiva mai – ma mai una volta, davvero – il ritmo con il quale sembrava scorrere quell’orizzonte.
Vi ho sempre guardato con invidia voi, quelli che sono sempre a tempo.
Quelli che nascono nel momento giusto, nel posto, nel modo giusto, che sembrano sempre vivere secondo corrente. Non ho mai davvero capito se fosse un merito o un privilegio (per molto tempo mi sono buttata sul secondo, giusto per consolarmi, se non per giustificarmi), ma il fatto è che so che le cose non stanno proprio così: sono ben più complicate.
Quello che è sempre – ma sempre davvero – sembrato a me è che semplicemente io di quell’orizzonte non ho mai fatto parte.
Fuori portata l’orizzonte; fuori fuoco, fuori fase, fuori campo, fuori tempo io.
Tutto lì.
Il fatto è che spesso sono stata fuori tempo in avanti. Voglio dire, non sono necessariamente sempre stata in ritardo. E’ che sono piuttosto intuitiva e so che del mio istinto dovrei fidarmi di più. A volte però non aiuta, perché riuscire a prevedere i percorsi delle cose prima che accadano ti da una specie di disillusione profonda – nella maggior parte dei casi regolarmente confermata dai fatti. E non è quasi mai bello, no.
Certo, il peggio è quando ti senti in ritardo. Perché hai quella orrenda sensazione di dover correre, (s)forzarti fino all’affanno; come quando devi per forza entrare in vestiti nei quali sai già che non ti sentirai a tuo agio – io di solito non li sopporto quando sono stretti.
Perché per forza correre? Non sono sicura di saperlo, e sì che ho passato la vita a farlo. Però comincio a rendermi conto che le volte che ho vinto, le volte che sono stata meglio, le volte che ho imparato qualcosa sia dall’orizzonte lontano che dalla strada che stavo percorrendo è stato quando mi sono ribellata a me stessa e ho smesso di correre.
Quindi è andata così: le battaglie che ho vinto sono state quelle che mi sono rifiutata di combattere. Vorrà pur dire qualcosa.
Credetemi, non è per nulla facile non appartenere, non partecipare, avere costantemente la sensazione che le cose stiano accadendo da qualche altra parte senza che io lo sappia e me ne renda conto.
No, non è mai stata una bella sensazione, perché non c’è niente di figo ad avere la costante consapevolezza di rimanere sul bordo del marciapiedi mentre il traffico ti scorre davanti. Rende tristi e basta.
A differenza di prima adesso però c’è una cosa che so: non posso entrare nel traffico, non sarei capace di guidarci dentro; ma posso guardarlo, trovarci dettagli di bellezza. Chessò, colori, suoni, ritmi interessanti; facce simpatiche alle quali fare le boccacce da dietro il finestrino. Cose così.
Io posso lavorare sui dettagli. Comporre di e da quelli – qualcosa del tipo ‘hai le virgole tesoro, gioca con quelle’
E poi ogni tanto, saltellando incerta, posso anche provare ad attraversare la strada.
Giusto per provare a vedere le cose da un altro punto di vista.