Fuori la notte scivola veloce mentre l’ automobile si muove rapida nel buio intermittente dell’ autostrada. Una striscia bianca l’ asfalto, lo sguardo che si sposta dal volante al cielo.
Seduto rigido, la schieda dritta, le nocche delle dita bianche per lo sforzo di concentrazione, lui pensa. Potrebbe durare in eterno questo viaggio. Si potrebbe restarci seduti mesi, anni, su questo sedile, gli occhi fissi sulla strada, questa linea retta che continua all’infinito attraverso l’anonimo, piatto paesaggio. In realtà si potrebbe persino smettere, di pensare, ché tanto bastano le mani sul volante, gli occhi che a tratti si stringono impercettibilmente, le spalle che cambiano appena posizione.
Esiste un momento, un preciso, chiaro momento, in qualsiasi cosa si faccia, che la gela di eternità. Un’ eternità modesta, per euforica o disperata che sia, un’ eternità di attimi sempre uguali.
La strada, la macchina, il corpo pietrificato dalla concentrazione. Una piccola eternità che passa attraverso fanali che lampeggiano, insegne che si perdono, luci gialle che insistenti bruciano l’ attenzione per poi scomparire.
E la sensazione che fuori la notte, fondendosi col metallo, penetri lentamente nella macchina per impadronirsi silenziosa del volante.
Poi arrivi dove stavi andando.
(Silvia rilegge e corregge Silvia, di nuovo. Fuori il sole di marzo, qui un raffreddore in arrivo).