A COSA SERVE L’ARTE? (ALWAYS CRASHING IN THE SAME CAR)

 Una logica nel chiederselo c’è.In particolar modo quando te ne occupi per tanto tempo, perché a volte hai davvero la sensazione di non stringere nulla tra le mani.Altre volte – sono i giorni peggiori – ti senti così tanto presa per i fondelli che ti rendi conto che l’unico modo per saperlo sarebbe di poterne creare una.

Una cosa?

Un’opera d’arte.

Io so solo una cosa, una sola, che suona terribilmente retorica e che però è anche l’unica che finora ha funzionato per me: l’arte è uno strumento. Un codice. Una sorta di foglio translucido di quelli che applicati alla realtà alternativamente la illuminano, la interpretano, la rispecchiano oppure la disgregano.

Non si può fare più facile?

No, perché in realtà è già facilissimo così. L’arte è una lente a caleidoscopio: per funzionare servono i tuoi occhi che ci guardano dentro.

Detto così può sembrare molto romantico, ma non è vago e nemmeno poi tanto poetico; in realtà è solo molto impegnativo.

Mi spiego meglio: non sto dicendo che non esistano canoni universali ed eterni per stabilire il valore artistico di un’opera, oh, no. Ne esistono eccome. Uno per esempio è il tempo: un’opera d’arte ha valore se resiste nel e al tempo, se regge una prospettiva a posteriori e da lontano. Come se la si guardasse dall’altra parte del cannocchiale, insomma.

Però non si tratta solamente di questo: la storia non si fa solo in linea retta e, soprattutto, non si può fingere il passare del tempo quando il tempo ancora non è passato.

E poi ci sono la questione della bellezza estetica, della capacità tecnica, dei valori pittorici, del disegno, di…

E adesso?

Rimettiamoci il caleidoscopio davanti agli occhi.

Dentro un’opera d’arte dobbiamo poter vedere: il mondo da dove l’opera d’arte proviene. La vita dell’artista che l’ha creata. Il nostro mondo in una luce nuova. Noi stessi. Tutto quanto insieme. Oppure nulla, perché si può anche non guardare, o guardare e non vedere.

Ecco, il punto è proprio questo: in realtà l’opera d’arte la facciamo noi.

Voglio dire che dobbiamo lasciare che l’opera d’arte ci parli: se ha una voce dobbiamo metterci nella condizione di ascoltarla. Metà strada la deve fare l’opera ma l’altra metà la dobbiamo fare noi. E se l’opera d’arte è antica, siamo noi che dobbiamo camminare di più, mica il contrario. Farcelo credere è stata una delle più grandi e distorte illusioni scolastiche: si scambia per facilità quella che è solo abitudine. Credete sia davvero più facile capire chessò, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, piuttosto che l’arte contemporanea?

No, vi assicuro che non è così. Noi siamo costituzionalmente portati a interpretare meglio il presente del passato. Solo che, vivendoci dentro, non ci fermiamo a guardarlo. Perché non dovrebbe essere lo stesso con l’arte?

Non sto facendo del facile qualunquismo, al contrario. E’ come in una qualsiasi altra relazione: parlo di assunzione di responsabilità.

Non è nemmeno necessario essere tanto seriosi. Seri, questo sì: ma ad essere seri nel senso giusto ci si diverte da matti; l’arte è un gioco. Proprio un gioco, perché il gioco è una cosa tremendamente seria; è giocando si creano le sinapsi nel cervello dei bambini.

Ma come in qualsiasi gioco che sia serio, ci sono delle regole. Poche, semplicissime, imprescindibili. Prima di tutto bisogna essere disposti a entrarci, nel gioco; secondo, è necessario mantenere il proprio e lasciare spazio all’altro o agli altri giocatori; ultimo, ma non meno importante, è obbligatorio seguire le regole: ci sono una grammatica da imparare – ma anche una da inventare – parole nuove, facili o difficili, sussurrate o urlate. Anche toni e volumi sono importanti.

E soprattutto, come in una qualsiasi altra relazione, mai perdere di vista l’obiettivo: capire.

Capire è una bellissima parola che originariamente significa avere spazio dentro. Per qualcosa di nuovo e diverso che proviene da fuori.

Certo, è evidente che non basta avere spazio dentro se poi da fuori non arriva nulla; anche questo del resto vale per tutte le relazioni. Ma è altrettanto evidente che se non si fa spazio non si saprà mai cosa e quanto di nuovo potrà entrare: l’unica è provare.

Parlando di arte la questione si complica un po’: se con una persona ci si trova davanti a un’immensa incognita, a una sfida, a una crisi, con un’ opera d’arte il lavoro da fare dovrebbe essere maggiore.

Ma forse no.

Forse è solo diverso.

Forse…

Mi accorgo mentre scrivo che mi piace pensare che in realtà sia praticamente la stessa cosa.

Mi rendo conto che sto dicendo che l’opera d’arte ha in fondo la stessa utilità di una storia d’amore e mentre lo faccio mi tornano in mente le innumerevoli volte in cui l’ho letto; tutti gli scrittori, critici, poeti che sono arrivati a questa medesima conclusione.

Mentre io cercavo e chiedevo loro qualcosa di diverso.

Adesso capisco che forse in realtà quello che cercavo e chiedevo era un diverso modo. Che non poteva essere loro, ma solo mio. Il mio personale percorso. Il mio personale come. Foss’ anche per arrivare alla medesima conclusione.

Riguardo all’amore, intendo. E sì, beh, anche riguardo all’arte.

Che appartengono al medesimo mondo – che senza andare molto lontano è il nostro. Quindi trovano le parole nel medesimo campo semantico. Anche se forse sarebbe meglio dire che sono a metà strada fra tangenti e parallele.

Come l’amore – quello serio, quello che si gioca seguendo le regole, quello nel quale io cammino fino lì, tu lì mi raggiungi, il mio spazio per e con il tuo– l’utilità dell’arte è questa: ampliare il più possibile lo spazio per capire.

L’arte fa spazio.

DEFINE ECLECTIC

 “Mi sento inutile e assurda. E l’unico modo per mettere un freno a queste sensazioni è ridurre il mio lavoro alla sua unità minima: questa frase. Scrivo per costruire questa frase: per renderla più bella che posso, questa qui e anche la successiva”

(Zadie Smith, Perché scrivere)

E questo, paradossalmente, è il punto d’arrivo. Il che significa che ho deciso di cominciare dalla fine. O forse, più semplicemente, che da questa fine ricomincio, ora che ho capito cosa, in sostanza, mi definisce e mi struttura: le parole.

Sembra paradossale, no, lo è: l’ho capito prendendo lezioni di batteria.

Ancora non mi è chiara la ragione per la quale sia successo. Intendo: non stavo nemmeno cercandola, una definizione. Però, in effetti, persa lo ero proprio, anche grazie alle solite cose: lavoro incertissimo, soldi incerterrimi, punti di riferimento identitari andati, e senza che quasi me ne accorgessi.

Intorno, persone definite, forgiate, ritmate in ogni singolo movimento vitale da una motivazione certa, solida come e più della roccia. O almeno così mi sembrava.

Appena prese in mano le bacchette, ho sentito la paura più intensa che mai si possa provare in una situazione priva di pericoli: non dovevo pensare, non dovevo parlare. Dovevo abbandonare l’unica sponda che mai avevo abbandonato: quella della grammatica.

La consapevolezza è partita da lì, dall’essere approdata alla prima vera spiaggia straniera della mia vita. A posteriori, avrei anche potuto saperlo prima: ci si definisce sempre attraverso ciò che non si è.

Non voglio che il discorso diventi lungo, voglio solo che sia chiara una cosa: non ho la minima idea di dove questa nuova consapevolezza mi stia portando, se non in qualcosa (io?) dove la parola regna sovrana. A volte sovrasta. Altre sussurra. Altre si ingarbuglia, annichilita. Ah, cambia anche grammatica, vocabolario, paese e forse emisfero.

Chissà.

Intendo: mi rendo perfettamente conto che non si tratta certo di una grande, risolutiva scoperta. Fatta di parole. Scrittrice, dunque? La miliardesima, dunque. La milionesima, anzi. Una nuova writer wannabe. Ma guarda tu.

Scrivere poi di cosa?

Beh, originariamente d’arte. Sono brava, tra l’altro. Lo so che lo sono.

Quindi forse scriverò d’arte.

Forse.